Vorrei abitare all’angolo di via Emilio Lussu

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di Peppe Dell’Acqua

 

Abito a Trieste in via Felice Venezian, angolo via Luigi Cadorna, generalissimo. Quando esco non posso non incrociare la targa.

Mio zio Gabriele ha fatto il fabbro per tutta la vita nella piccolissima frazione di Sant’Andrea, nel comune di Solofra nell’avellinese, dove io sono nato. Ha forgiato e battuto migliaia di zappe, falci, accette e roncole. Ho passato molte estati al paese con la nonna. Mi fermavo ore con mio cugino Antonio, suo figlio, nella bottega. A volte ci facevano manovrare il mantice per tenere vivo il fuoco della fornace. Zio Gabriele è morto di vecchiaia a quasi novant’anni. Era stato un ragazzo del ’99. Fu mandato al fronte che aveva diciassette anni. Con lui tanti altri ragazzi di quei paesi che capivano poco l’italiano e non sapevano neanche immaginare i sacri confini della Patria. Molti, moltissimi non tornarono: in ognuno di quei paesi un monumento, un cippo, una targa con decine e decine di nomi. Furono centinaia di migliaia i giovani che lasciarono su quei terreni, aspri e sconosciuti, la vita che bruciava di amori, passioni, speranze. Erano le strategie del generalissimo. L’attacco frontale di massa è una carneficina quotidiana. Non c’è scampo per i giovani soldati: l’ordine di attaccare è una condanna a morte.

Zio Gabriele non amava ricordare, preferiva tacere. Si poteva cogliere una sorta di arresto, un’immagine ferma in un tempo che non scorre. Credo sia tornato dalla guerra più taciturno e riservato di prima. Tante cose le ho capite dopo. Mi è sembrato allora di comprendere anche le ragioni di quel velo di tristezza che non lo abbandonava mai.

Emilio Lussu prestò servizio nel 151° Reggimento della Brigata Sassari, era un giovane ufficiale, amato dai soldati, seguito e rispettato da tutti. Un anno sull’altipiano è forse il più bel libro scritto su quegli anni così crudeli. Il racconto della vita di trincea restituisce il dolore, la disperazione, la lotta estrema per la sopravvivenza. La vita in trincea è feroce ma gli assalti al nemico sono quanto di più terribile possano sopportare quei giovani spesso affamati, mal vestiti e male armati. I morti non si contano. Lussu racconta che nel corso di uno degli insensati attacchi comandati da Cadorna molti suoi uomini furono abbattuti. «Io vidi, arrivati vicinissimi alla trincea del nemico, quelli che ci stavano di fronte, con gli occhi spalancati e con un’espressione di terrore quasi che essi e non noi fossero sotto il fuoco. Uno, che era senza fucile, gridò in italiano: “Basta! Basta!”. “Basta!” ripeterono gli altri, dai parapetti. Quello che era senz’armi mi parve un cappellano. “Basta! Bravi soldati. Non fatevi ammazzare così”».

Si fossero fermati i carabinieri del fucilatore Cadorna li avrebbero giustiziati sul posto.

Mi piacerebbe che tutte le strade e le piazze d’Italia che ancora oggi dopo cento anni da quella terribile macelleria non fossero più intitolate al macellaio fucilatore, ma con una sommessa e dolente cerimonia al giovane tenente cagliaritano Emilio Lussu.