Trianon e reticolati

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A sessant’anni dal’56 ungherese

Francesco Leoncini

 

Albert Camus in un vibrante discorso alla Salle Wagram a Parigi il 15 marzo 1957, per il meeting organizzato dal «Comitato della Solidarietà antifascista» in occasione della festa nazionale ungherese (che si celebra a ricordo della Rivoluzione del 1848), così concludeva:

“La nostra fede è che nel mondo è in cammino, parallelamente alla forza di repressione e di morte che oscura la Storia, una forza di persuasione e di vita, un immenso moto di emancipazione che si chiama cultura e che si compie con la libera creazione e, insieme, con il libero lavoro.

Il nostro compito quotidiano, la nostra antica vocazione è di accrescere con il lavoro questa cultura, e non di sottrarne alcunché, sia pur provvisoriamente. Ma il dovere più fiero che ci spetta è quello di difendere personalmente, e fino all’ultimo, contro la forza di repressione e di morte, da qualunque parte essa venga, la libertà di questa cultura, vale a dire la libertà del lavoro e della creazione.

Gli operai e gli intellettuali ungheresi che seguiamo con tutta la nostra amarezza impotente, hanno compreso ciò, e ce l’hanno fatto meglio comprendere. Poiché se la loro sventura è la nostra, anche le loro speranze ci appartengono. A dispetto della loro miseria, dell’esilio, delle catene, ci hanno lasciato una sublime eredità che dobbiamo meritarci: la libertà che non hanno scelto, ma che in un solo giorno ci hanno reso!” (Franc-Tireur,18 marzo 1957).

Camus aveva compreso esattamente quali fossero stati i protagonisti e l’obiettivo del movimento che si era sviluppato in Ungheria tra il 23 ottobre e il 4 novembre dell’anno precedente.

«Il socialismo è libertà» aveva scritto poco prima l’economista Edward Lipiński, tra gli esponenti del processo di rinnovamento che in Polonia aveva preceduto di qualche mese l’insurrezione ungherese.

«La fabbrica appartiene agli operai. Questi corrispondono allo stato l’imposta calcolata sulla base della produzione e il dividendo fissato secondo i profitti» recitava il 1° punto della Risoluzione del Parlamento dei Consigli Operai riunitosi a Budapest il 31 ottobre.

Nel ’56 polacco-ungherese non si trattava soltanto di ottenere l’autogoverno (autogestione) nelle fabbriche, nelle aziende, ma di ottenere l’autogoverno della società attraverso la compresenza di vari soggetti, i consigli, i partiti, il parlamento, diviso tra una camera eletta su base territoriale e una eletta sui luoghi di lavoro, i sindacati, i gruppi di opinione. Sembrava qui riemergere quel disegno di frammentazione del potere che stava alla base delle classiche teorie democratiche di Jefferson. In una delle sue molte lettere che indirizzava ad amici e collaboratori il padre della democrazia americana scriveva:

“No, mio caro amico, il mezzo per avere un governo buono e fidato non sta nell’affidare ad un unico organo tutto il potere, ma nel dividerlo fra molti, distribuendo a ciascuno esattamente le funzioni che è in grado di assolvere.”

Cosa è rimasto nelle attuali rievocazioni e nella realtà contemporanea di quell’anelito profondo verso una nuova dimensione dei rapporti sociali, aperta a un’attiva e decisiva presenza dei lavoratori e degli uomini di cultura e volta a un “ribaltamento” a favore delle classi subalterne?

In un mondo dominato da forze economiche e militari sempre più inafferrabili dal potere politico e tanto meno controllabili da organizzazioni popolari la parabola iniziata nel ’56 si chiude. La democrazia diventa oligarchia, la libertà si identifica con la libertà di mercato, o meglio con la libertà dei più forti, la collettività, come fattore di iniziativa politica autonoma, rientra nei più logori schemi dell’idea di nazione per annullarsi nel nazionalismo.

Appare perciò comprensibile che nella Giornata di studio organizzata a Venezia il 28 ottobre su “Budapest 1956: la Rivoluzione” la rappresentante ufficiale del governo ungherese, nel suo discorso di apertura, abbia subito iniziato col rievocare il Trattato di Trianon, sulla base del quale le potenze vincitrici del I conflitto mondiale conclusero la pace con l’Ungheria. Con quell’atto il Regno di Santo Stefano, riconosciuto dal Compromesso austro-magiaro del 1867, perse 2/3 del sua popolazione e quasi 3/4 del suo territorio, 1/3 dei magiari restarono fuori dai confini.

Sul piano storiografico si può discutere a lungo su queste decisioni, certo è che Lajos Kossuth, il leader della Rivoluzione antiasburgica del 1848-49, era nettamente contrario a quell’accordo che avrebbe legato indissolubilmente la Natio Hungarica alla tanto detestata Casa d’Austria, con la inevitabile conseguenza che essa ne avrebbe dovuto condividere fino in fondo il destino.

L’aristocrazia magiara aveva inoltre attuato una delle politiche più dure di snazionalizzazione delle componenti etniche slave e romene a essa soggette.

Ma tutta questa problematica non rientrava comunque a nessun titolo nel tema del convegno né, soprattutto, esistono documenti significativi che essa sia stata presa in considerazione dai rivoluzionari del ’56, cosa che avrebbe allora sì giustificato i terrificanti giudizi di Togliatti, Napolitano, Pertini e compagni.

Della vera natura autenticamente popolare dei movimenti che erano esplosi in Polonia e in Ungheria ne era divenuto subito convinto Giuseppe Di Vittorio, alla guida della CGIL. Scartando immediatamente l’ipotesi che le manifestazioni fossero state fomentate da provocatori, egli denunciò «la crisi di un sistema che privilegiava l’accumulazione sul valore della persona ed era incapace di fare della ripartizione tra investimenti e consumi un fatto di democrazia, il prodotto di una scelta democratica». La dichiarazione ufficiale di condanna del regime da parte del sindacato uscita su l’Unità del 28 ottobre ribadiva come:

“il progresso sociale e la costruzione di una società nella quale il lavoro sia liberato dallo sfruttamento capitalistico, sono possibili soltanto con il consenso e la partecipazione attiva della classe operaia e delle masse popolari, garanzia della più ampia affermazione dei diritti di libertà, di democrazia e di indipendenza nazionale.

Alcune autorevoli testimonianze di allora giovani protagonisti di quelle epiche giornate di Budapest hanno arricchito l’incontro veneziano. Ma essi hanno ricordato anche il ruolo che istituzioni italiane ebbero nell’accogliere e nell’aiutare i profughi dopo l’invasione sovietica. L’Università di Padova in particolare si distinse per favorirne l’inserimento nelle sue Facoltà e a questa sua opera, che in parte si svolse addirittura in maniera volontaria, con una spedizione a Vienna del prof. Morandini per prendere subito in consegna chi fosse stato interessato agli studi nell’Ateneo del Veneto, è stata dedicata un’apposita relazione.

Furono oltre trecentomila le persone che fuggirono all’epoca dal territorio ungherese e anche allora si pose il problema dei campi di raccolta e come smistare e organizzare la suddivisione tra i vari Paesi. È a questo proposito assai interessante il n. 3/2006 del Bollettino dell’Unhcr Rifugiati dedicato al 50° di quegli eventi. Tra l’altro vi si legge:

“Intere classi – persino intere scuole – stavano attraversando i confini scarsamente sorvegliati. Studenti, insegnanti, dottori, atleti e calciatori famosi, agricoltori, architetti e operai, tutti cominciavano a confluire verso l’Austria – principalmente nella regione del Burgenland, attorno alla città di Eisenstadt […] Uomini, donne e bambini attraversavano paludi, guadavano canali, attraversavano foreste, e cercavano di farsi strada attraverso i campi coperti di neve, cercando di evitare le pattuglie e le luci dei proiettori.

Fenomeni analoghi stiamo vivendo in maniera ben più massiccia, ma quanto lontani sono quei soccorsi che vennero allora sistematicamente e premurosamente approntati!

I bisogni materiali sono gli stessi per coloro che fuggono dalla fame o dalla guerra o dalle invasioni, ma ad aspettarli sono altissimi reticolati, anche mentali.

Recentemente Le Monde (13 maggio 2016) riportava la notizia secondo la quale gran parte delle barriere anti immigranti sul confine ungherese sono costruite da detenuti.

Resta solo da constatare la vigliaccheria dell’intellettualità europea che tace di fronte allo scempio della migliore tradizione umanistica e cristiana.