Oro da vendere

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Nei racconti di Pericle Camuffo si parte da un’isola per raggiungere i sogni gettati «laggiù, dove il cielo e l’acqua si incontrano»

di Walter Chiereghin

 

I lettori più assidui e di più lunga data ricordano certamente di aver più volte incontrato su queste pagine Pericle Camuffo, per alcuni articoli e recensioni di critica letteraria, ma anche per per un suo lungo reportage di molte puntate, scritto in esito a un suo avventuroso viaggio in Australia, che abbiamo pubblicato in ben quattordici puntate, a partire quasi dall’esordio di questa nostra iniziativa editoriale. Né l’Australia è stata una sua solitaria impresa di viaggiatore: la Nuova Zelanda, l’America Latina, la Patagonia, attraversate in luoghi un po’ eccentrici rispetto ai canoni del turismo di massa, dove ha collazionato e trascritto, in forma di articolati appunti e bozzetti, luoghi, occasioni, paesaggi, soprattutto personaggi ed incontri che la scrittura restituisce al lettore con grande efficacia narrativa. Una parte di questo materiale fa parte del più recente libro di Camuffo, Compro oro. Pago in contanti, costituendo la quarta e ultima parte di una serie di racconti, quelli ambientati nelle sue peregrinazioni nelle località più remote, sicuramente le più distanti da quelli da cui si sviluppa il filo della narrazione, che è invece costruito attorno al nucleo di partenza, che è Grado, l’isola – come viene chiamata la cittadina lagunare – da cui è partita la sua esperienza.

Seguendo lo schema con cui l’autore ha voluto organizzare la disposizione dei singoli frammenti che compongono il volume, ci si allontana sempre più da tale baricentro, a disegnare una personale Odissea alla rovescia che, a differenza del poema omerico, parte da Itaca – la “sua” isola – per spingersi verso orizzonti sempre più remoti, approdando dapprima nella più prossima terraferma (Al di là dell’acqua), cedendo poi la parola a quanti compiono il cammino inverso (Voci dei migranti), per riprenderla alfine, come si è detto, per proporre i racconti dei suoi viaggi extraeuropei, in uno dei quali, come dichiara, si pone una domanda fatale, che è anche la confessione di debiti letterari o piuttosto esistenziali: «Piegato sul tavolo di formica verde, non posso non chiedermi, come Bruce Chatwin, e come Rimbaud prima di lui in qualche malsana tenda africana, “Che ci faccio qui?”» (p. 190).

Ma andiamo con un minimo d’ordine: torniamo all’Itaca di Camuffo, cui sono dedicate una settantina di pagine in apertura del volume. Come per chiunque, il rapporto di intimità tra lo scrittore e il luogo in cui è nato e dove, in particolare, ha vissuto i primi anni della sua formazione rivela una dipendenza e una compenetrazione da cui è impossibile prescindere, che per di più, nel suo caso, sono destinate ad infittirsi con l’approfondita conoscenza del padre spirituale dell’isola, con la straordinaria voce poetica, cioè, di Biagio Marin, assiduamente studiato da Camuffo che ne ha fatto il perno di gran parte della sua cospicua produzione saggistica. Sotto una scorza di diversità nella percezione del luogo e del tempo tra il sentire di Marin e quello, disincantato e scettico, del suo giovane studioso, la comune appartenenza a quest’isola di sabbia affiora con prepotenza fin dal primo dei racconti di questa silloge, significativamente intitolata Andate e ritorni: «L’odore del mare ci è rimasto dentro, come sedimentato attorno alle ossa, e la spinta ad attraversarlo, a partire, è qualcosa che è passato attraverso le generazioni e che ci rende inquieti. Cerchiamo l’imbarco, sempre, perché è laggiù, dove il cielo e l’acqua si incontrano, che abbiamo gettato i nostri sogni» (p.23).

Certo, l’isola di Camuffo non è più quella del grande poeta, le tre o quattro generazioni che li separano segnano una differenza profonda nella percezione del paesaggio della cittadina lagunare; il «picolo nio e covo de corcali» (piccolo nido e covo di gabbiani) è oggi una località turistica che si riempie nei mesi estivi di villeggianti e bagnanti che affollano le spiagge e i locali che poi, col ritirarsi della stagione, si svuotano, lasciando i residenti, soprattutto i giovani, defraudati dell’illusoria festosa agitazione colorata, cosmopolita e falsamente accogliente e inclusiva di un’estate che ciclicamente avanza e si ritira, come l’onda sulla battigia.

Né si limitano a questa pendolarità dell’immagine che l’isola offre di sé le differenze di cui sono testimoni i coetanei di Camuffo e delle quali, in queste pagine, egli si fa interprete, mettendo in scena i protagonisti di molte microstorie che convergono, pur nella loro eterogeneità, a comporre l’immagine di una generazione segnata dalla precarietà lavorativa, dall’incertezza economica che ha determinato il proliferare dei “compro oro” del titolo nei primi anni del nuovo secolo, allo straniamento di adolescenze vissute nelle aule di un Istituto Tecnico Industriale, o nei baretti in cui ci si può ubriacare annegando noie e angosce in un torpore cui sembra impossibile altrimenti sfuggire, come i più sfortunati tentano di fare cercando negli psicofarmaci e nelle droghe un sollievo ingannevole e devastante alla loro condizione.

Perché può apparire che grigiore e precarietà, insoddisfazione e smarrimento di senso rendano per alcuni o forse, a momenti, per tutti il piccolo nio un’asfittica cella, dalla quale è necessario evadere alla prima occasione. Salvo poi ritornare, com’è successo a Mario, portiere nelle partitelle tra amici adolescenti, che ritornando da adulto dopo anni di navigazione in giro per il mondo, deve dichiarare di non essere riuscito a trovare in nessun altrove ciò che lo aveva spinto a imbarcarsi. La storia di Mario è solo la prima che ci propone Camuffo, altre sono le tentate evasioni, come quella del Cobra, profeta di insurrezioni velleitarie e frustrate, o di Marino, già cuoco di bordo, che viveva nel picolo nio una sua tardiva giovinezza di inveterato puttaniere, oppure Fabio, il Capitano di «notti di bar e di niente» e compagno di «un’estate intera a raccontare cazzate e storie irreali, ad infilare dita e mani sotto magliette e pantaloni che non scendevano mai, un’estate di ragazze abbandonate sulla spiaggia con ancora in bocca il “NO” con cui ci avevano bloccato sul più bello» (p. 46). Storie che narrano di solitudini, come quella di Emilio morto «nell’ora buona dei pescatori, verso le tre di mattina, quando i motori si accendono e le barche prendono il largo lente e quasi malinconiche […] piegato di tristezza e di amore non dato. Se n’è andato in silenzio pazzo sensibile poeta della vita».

E come queste, cento altre vite vissute in questa bizzarra periferia insulare, su quest’isola di sabbia e alghe, di pizzerie e dei night club che hanno soppiantato le discoteche di pochi anni prima, di esistenze stralunate e sovente piegate su se stesse, a comporre nella loro coralità l’affresco di un’altra Spoon River (opportunamente evocata nella bella prefazione di Maurizio Mattiuzza), dove sembra possano convivere il picolo nio e l’angusta galera che Camuffo dipinge per i suoi lettori.

Sciolti gli ormeggi, stimolati dalla vicina frontiera, anche i racconti di Camuffo si avventurano ad esplorare il mondo, a partire dall’immediata terraferma, da dove poi troveranno ben più impegnativi itinerari, sulle orme di Bruce Chatwin e di Arthur Rimbaud (ma anche, aggiungeremmo noi, di tanta altra letteratura, soprattutto anglosassone, da Hemingway a Bukowski) Così, da quest’Itaca alla rovescia partono le odissee dell’autore e dei suoi compagni, spronati verso il largo da un “non domato spirito”, che è anche (lo sappiamo grazie a Saba) “della vita il doloroso amore”.

 

 

 

 

 

Pericle Camuffo

Compro oro.

Pago in contanti

Qudulibri, Bologna 2020

  1. 240, euro 12,00