IL PARCO DI MIRAMARE 2: IL PROGETTO DI MASSIMILIANO

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miramar

di Maurizio Anselmi

 

 

Poiché esso non è un parco pubblico

(20 marzo 1861, giardiniere di corte Anton Jelinek)

 

Il parco di Miramare fu realizzato da Massimiliano d’Austria per seguire un percorso interiore e la sua personale sensibilità, fattori entrambi guidati dalla temperie culturale e dalle mode del tempo. Era ancora diciottenne il 2 settembre 1850, quando venne a contatto con l’infinito del mare e si invaghì tanto del luogo da volerlo trasformare in un giardino paesistico confacente al suo rango imperiale. Impartì indicazioni molto precise all’ingegner Karl Junker cui affidò l’incarico di progettazione dopo aver valutato diverse proposte anche di altri architetti.

Il sito nasce come un luogo “privato” dove fruire delle bellezze della natura opportunamente governata dalla sapiente mano dell’uomo, anche nell’impossibile sfida di trapiantare i limoni e gli aranci apprezzati nei paradisiaci soggiorni siciliani che avevano fatto rinascere il gracile e timido Massimiliano e lo avevano colpito nel profondo con la più pregnante esperienza. Ma l’arciduca non era esattamente un comune cittadino e il suo concetto di privatezza non poteva essere quello di un altro comune mortale. Da subito il parco fu utilizzato per eventi di rilevanza pubblica quali le visite di parenti illustri immortalate dalla mano sapiente dei pittori dell’epoca ed entrò nell’iconografia pubblica.

L’incarico di imperatore del Messico conferito a Massimiliano lo portò lontano da casa mentre il castello era ancora in fase di completamento e nonostante egli continuasse da lontano a guidare le trasformazioni del parco questo fatalmente sfuggi per sempre al suo controllo e alla sua volontà di farne un monumento al suo gusto e al suo amore per gli elementi naturalistici. Per il parco iniziava così una nuova storia non ancora finita, ma anzi, oggi più che mai, in rapido divenire.

Intanto, per le esigenze gestionali, furono costruite le sette case destinate a dare alloggio a giardinieri ed amministratori che, con asburgica precisione si occupavano di eseguire le opere e anche di annotare puntualmente la contabilità con i costi e la descrizione delle attività svolte.

Per volere di Massimiliano il parco iniziò a essere aperto al pubblico per consentire ai triestini di godere delle sue bellezze. Da subito la presenza, ancora sporadica, di un pubblico creò immediatamente dei problemi puntualmente descritti nei diari di un irritato giardiniere di corte che lamentava furti e danni degli insensibili visitatori. Il 20 marzo 1861 il giardiniere Anton Jelinek così scrive all’Altezza Imperiale arciduca Massimiliano:

“A parte le calamità naturali, non c’è niente di peggio che lottare di continuo contro individui malvagi e perversi. Avevo appena fatto cospargere di cocci il muro presso il cancello di Grignano, come all’ingresso del lato della ferrovia, che anche questi sono spariti durante la notte”…”. Senza voler parlare dei piccoli furti che si verificano quasi settimanalmente, rappresenta un’eterna sciagura per il parco il fatto che esso, attraverso i due ingressi, viene lasciato in balia del pubblico che vi può scorazzare e soprattutto della numerosa canaglia. Poiché esso non è un parco pubblico, e non è stato nemmeno creato a questo scopo, ed anzi ne scapita la sua vera destinazione, diverse ragioni dovrebbero indurre ad aprire i cancelli solo alla gente per bene, con la richiesta di un biglietto d’ingresso; così si starebbe al sicuro dagli affollamenti e dalle spie, che di notte si appropriano della preda adocchiata durante il giorno.”

Certo oggi non verrebbe in mente di definire canaglia il pubblico dei visitatori, nemmeno per la piccola frazione di esso che non arretra di fronte a incresciosi atti di vandalismo, ma la sostanza dei problemi lamentati da Jelinek fanno parte delle preoccupazioni conservative che animano anche il nostro presente. Quello denunciato dal solerte giardiniere fu il primo episodio di una serie di vicende che portarono a trasformazioni di parti del castello e del parco, talvolta radicali e non compatibili con le esigenze di tutela del bene culturale come oggi lo consideriamo.