Le architetture trasognate di Fulvio Dot

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Intervista con l’artista isontino

di Walter Chiereghin

 

Vado a trovarlo nel suo studio, una piccola palazzina a due piani nel centro di Monfalcone. Lo studio è al piano terra, due stanze piccole, ma molto luminose, almeno in questa mattina chiara di luglio. Il mio sguardo gira curioso sulle pareti: una serie di disegni incorniciati, lo stile è quello cui Fulvio Dot ci ha abituato da tempo, ma il soggetto è diverso. Niente a che vedere con le architetture mediterranee bianche e azzurre delle isole greche, niente paraste o trifore di antichi palazzi veneziani: l’attenzione dell’artista si posa ora su palazzoni novecenteschi, in cui la serialità dei moduli abitativi e le prodezze statiche del cemento armato consentono di “piegare” la figurazione alle esigenze del ritmo compositivo dei disegni, al solito accuratissimi. Nell’altra stanza, su un cavalletto, un dipinto attende di essere completato, il che non è cosa facile: sulla tela grossolana di genesi militare sono sovrapposte campiture di catrame e lacerti di cartoni ondulati, e appena su una parte, in acrilico, si viene completando con l’uso del colore la figurazione di un palazzo veneziano in cui il bianco – i bianchi anzi, frutto di diverse successive stratificazioni – riveste come di consueto un ruolo di primo piano nella tavolozza di Dot. Con il mio ardimento di ex fumatore resisto all’offerta di una sigaretta, ma l’eroismo dura appena qualche mucchietto di secondi, e infine comincia, rilassata e fittissima, la nostra chiacchierata.

 

La tua non può dirsi certo una vocazione tardiva all’arte, dal momento che, appena adolescente, ti sei iscritto all’Istituto d’Arte, a Gorizia. Sei stato assecondato dai tuoi in questa scelta?

Diciamo che non sono stato troppo contrastato in casa, anche perché mi ero impegnato con mio padre a valutare, una volta conseguito il diploma, quale avrebbe potuto essere la soluzione più opportuna per proseguire nel mio cammino. Poi, una volta finito quel ciclo di studi, avrei potuto fare l’Accademia, seguendo anche le indicazioni dei miei docenti, ma alla fine optammo invece per Architettura, che da un lato sembrava offrire prospettive di lavoro più rassicuranti, mentre dall’altro – dal mio punto di vista – mi pareva comunque una scelta che andava incontro al mio interesse per l’arte.

E come ti sei trovato poi a frequentare Architettura a Venezia?

Non mi sono trasferito, facevo il pendolare, perché in quegli anni non era richiesta la frequenza. Quanto al corso di studi, mi resi conto ben presto che non si trattava di materie affini al disegno e all’arte, ma piuttosto, con mio vivo disappunto, ai calcoli, alla matematica… Poi devi tener presente il periodo in cui io studiavo, gli anni che seguivano il Sessantotto: tra l’altro, sono stato tra gli ultimi a sostenere gli esami in gruppo, sistema che lasciava una certa discontinuità nell’apprendimento. Ricordo, per esempio, un 30 immeritato in Estimo, oppure un 28 praticamente regalato in Analisi matematica uno, esame per il quale mi sono poi dovuto preparare “a posteriori” per affrontare Analisi due. Più in generale, erano anni in cui si inseguivano, anche in architettura, utopie difficili da attuare: ricordo che quando mi hanno mandato a Trieste per studiare la realizzazione del complesso di edilizia popolare di Rozzol Melara rimasi assai perplesso e freddo, dicendo a me stesso che cose del genere non le avrei fatte mai.

Hai avuto anche Luciano Semerani tra i tuoi docenti?

Sì, per un anno soltanto. Ma intendiamoci: non è che le tendenze nell’architettura dei miei anni di studio fossero prive di fascino e non si basassero anche su osservazioni pertinenti rispetto alla realtà sociale ed economica di quel periodo, ma a me sembravano basate su una visione utopistica, largamente inattuabile. C’era per esempio chi teorizzava l’idea di una casa variabile, cioè che rispondesse elasticamente al variare delle esigenze di chi la occupa, per cui una coppia appena sposata ha l’esigenza di disporre di un’abitazione, poniamo, di sessanta metri quadrati, che poi diventano cento o centoventi con la nascita e il crescere dei figli, per poi contrarsi nuovamente negli anni in cui i figli se ne fossero andati. Osservazioni basate su constatazioni reali, ma veramente impossibili da tradurre in una progettazione che avesse realistiche possibilità di essere utilizzata. Accanto a questa mia sfiducia su quanto mi vedevo attorno in quegli anni, ha giocato naturalmente anche la mia disillusione per un corso di studi che avevo immaginato assai più umanistico di quanto in effetti poi mi si rivelò.

E infatti…

Infatti mi sono laureato, ma poi non ho mai sostenuto l’esame di Stato, per cui, anche se lo volessi, non potrei esercitare la professione. Per qualche anno mi son dato da fare lavorando per una ditta, poi nel negozio con mia moglie, prima di riprendere il filo e dedicarmi completamente a quanto poi ho fatto.

Nella tua formazione artistica è stata dunque importante la tua esperienza all’Istituto d’Arte?

Sì, direi che è stata fondamentale. Intanto perché la formazione partiva dalla base. Per un anno, dico un anno, mi hanno fatto fare filetti, sai come si faceva un tempo per la scrittura? asta e filetto, una noia mortale! Ma il risultato e che anche ora, a distanza di decenni, posso prendere un pennello e tracciare una riga che non sbava da nessuna parte. Questo e altro avveniva in un laboratorio in cui, nei primi due anni, ti insegnavano la tecnica del colore, la prospettiva, la pittura su vetro, altre cose fondamentali, propedeutiche a quanto poi si sarebbe fatto nel triennio conclusivo. E poi, la grande fortuna è stata quella di avere un maestro come Cesare Mocchiutti, figura determinante nel mio percorso non soltanto scolastico.

Disegni, probabilmente, da sempre, ma da quando ti sei proposto al pubblico con una mostra?

La prima personale l’ho fatta qui, a Monfalcone, nel 1976, in una galleria che ora non esiste più, si chiamava “La Sfera”. Erano dipinti assolutamente informali. Avevo finito l’Istituto d’arte, poi c’è stato un lungo intervallo, l’università, poi il lavoro… quando infine ho ripreso a dipingere, basandomi su disegni che intendevano rappresentare figurativamente dettagli di paesaggi, di norma urbani, ho iniziato a produrre opere dove figurativo e informale si ibridano tra loro, che sono poi le opere che conosci ormai bene anche tu, quelle che vedi qua intorno a noi e che mi hanno consentito di presentarmi con un certo successo al pubblico in regione, fuori da essa e anche all’estero. La mostra di qualche tempo fa a Malaga, per dire dell’ultima, è stata un notevole successo, sia di pubblico che di critica.

Anche lì, immagino, hai esposto questi tuoi più recenti paesaggi urbani?

Certo, d’altra parte sai bene che sono stato sempre attratto dal paesaggio, che il più delle volte ho dipinto in questa sua declinazione urbana…

Beh, la tua laurea in Architettura non è passata del tutto invano…

Sicuramente: niente passa invano. Da quando sono passato dall’informale al figurativo, il mio soggetto d’elezione è sempre stato questo, il paesaggio delle città o dei paesi, gli edifici, le facciate dei palazzi, solo che col tempo è cambiata assolutamente la tecnica e il mio modo di vedere. Il primo soggetto che mi ha intrigato e che è stato alla base di questa mia ricerca è stata la Grecia, quella delle isole, di Santorini, le cupole blu delle chiesette ortodosse, il bianco delle case, il nero della notte che sembrava far risaltare la luce e i colori delle costruzioni. Non c’ero stato ancora, in Grecia, ma l’avvertimento che ne avevo – a distanza – è stato poi confermato e rafforzato dal viaggio. Successivamente, quando ho iniziato ad esporre anche all’estero, mi sono soffermato su un altro soggetto, Venezia, per due ragioni: la prima è che si tratta di un sito che conoscevo bene, l’altra è che si tratta di un luogo conosciuto in tutto il mondo, identificabile da chiunque attraverso dettagli paesaggistici anche minuti. Ciò mi consente di esprimermi attraverso un rigoroso rispetto della realtà, ma pure, a mia scelta, di rappresentare in maniera anche molto sintetica e parziale, riservandomi lo spazio per ogni altra mia esigenza compositiva, lasciando sempre perfettamente riconoscibile il soggetto che ho rappresentato. Se mi chiedi di dipingere, che so? Trieste, posso anche farlo, ma devo rimanere assai più ancorato alla realtà se desidero che chi osserva il dipinto vi riconosca quella determinata città.

Oltre a ciò, a questa perfetta identificabilità del soggetto, ti riallacci a una tradizione pittorica illustre e popolare a un tempo. Non ti intimidisce questa considerazione?

Vedi, soprattutto quanto inserisco in una mia composizione la facciata di un palazzo che s’affaccia sul Canal Grande o su quello della Giudecca, sono conscio di riprendere un soggetto caro ai vedutisti veneti, da Canaletto a Guardi, ma la mia facciata non solo è incompleta, come potrebbe essere in un ricordo o in una dimensione onirica, ma per di più è associata sulla medesima tela con immagini simboliche del nostro presente, un frammento di insegna pubblicitaria, un codice a barre. Tutti elementi che, ovviamente, testimoniano che si tratta di un’opera del XXI secolo e che per di più si avvale di quegli accostamenti per denunciare un degrado difficilmente tollerabile.

Già, cosa che poi realizzi anche grazie all’uso di materiali eterodossi: catene, fibbie, teli militari, cartoni…

Certo, e tutto ciò lo considero come dei colori supplementari: uso il bianco, il rosso, il blu e poi lo spago, la foglia d’oro, il sacco, frammenti di vario genere. Quanto è funzionale a rendere il dipinto collimante con l’idea che intendo esprimere con esso. O anche con quella che interviene in corso d’opera.

Per soffermarci ancora a considerare i tuoi soggetti, mi è capitato lo scorso anno, vistando la bella antologica di Sergio Altieri a Gorizia, di osservare delle inopinate affinità tra la tua e la pittura di quel Maestro, quando dipinge la facciata di un palazzo veneziano o del castello di Fratta, caro al Nievo. In lui, però, anche quei dipinti di architetture sono segnati dalla presenza di figure umane, che tu invece estrometti dal tuo campo d’azione. Come mai?

La figura umana la eseguo nei miei disegni, come in un costante esercizio. Tieni presente che se fossi chiamato a scegliere tra l’attività di disegnare e quella di dipingere, non esiterei a finirla là con la pittura. E quando penso alla differenza tra tali due tecniche, penso che la carta mi sopporta, mentre la tela mi pretende. Con tutto ciò, è vero che nei miei dipinti non è mai raffigurata la figura umana, ma è anche da dire che la presenza dell’uomo la percepisci sempre, in quanto si manifesta attraverso le sue creazioni, il frutto del suo lavoro, risultando invece difficile farla entrare direttamente in scena, anche perché il semplice orientamento di un volto riportato sulla tela determina un’alterazione di tutt’intera la struttura compositiva del dipinto.

Quali rapporti hai con altri artisti, con quelli che ti sono contemporanei, intendo? La gestione della Galleria “La Fortezza”, che dividi con altre quattro persone, immagino abbia allargato la sfera delle tue conoscenze con i colleghi, almeno con quelli della zona. O no?

Indubbiamente, la galleria è stata determinante sotto questo profilo. Più in generale, vedo con molto favore e interesse lo scambio con altri artisti e ritengo di non aver mai sofferto di gelosie nel condividere con altri le mie esperienze lavorative. Poi, come ogni altro genere di rapporti tra gli uomini, con alcuni ritengo di aver stabilito uno scambio proficuo, associato a un duraturo legame di amicizia, con altri la cosa è più episodica e superficiale. Ti dirò che avevo anche accarezzato l’idea di dividere le sei unità abitative di questo edificio con altri cinque colleghi, perché mi piacerebbe molto creare un’area comune dove, nel rispetto delle singole autonomie, lavorare per così dire a contatto di gomito. Ma non è facile, lo so…

Senti di appartenere a un determinato ambito artistico, in senso territoriale?

Sicuramente si è parte del panorama umano ambientale e storico nel quale si vive, sia come persone che come artisti. Qui, nel territorio in cui lavoro, siamo più che altrove in una “terra di mezzo”, a metà strada tra Gorizia e Trieste. In questo senso devo dirti che sono assai più attratto da Trieste, che percepisco come un centro più avanzato e vivace. Mi sento in debito con Spacal, per esempio, anche se io sono certamente più “barocco”, ma alcune sue cose le ritrovi nella mia pittura, sia pure in un contesto del tutto diverso dal suo. E poi le novità che provenivano da Trieste sono state da sempre uno stimolo: Marinavamo la scuola per andare a vedere quanto esponeva la Galleria “La Cavana”, aperta da Cogno e dalla Reina, per ricordare anni eroici, ma pieni di suggestioni visive di grande pregnanza e qualità.

Ritengo che molto influisca anche la presenza di una forte comunità slovena, che ha espresso, nonostante alcune avversioni latenti o esplicite a seconda del periodo, una serie di artisti di grande spessore, da Bambič a Černigoj, a Spacal, a Franko Visintin, a Palčič, anche grazie ai loro collegamenti con Lubiana, Zagabria e in generale l’Est europeo…

Io adoro Palčič! pensa che non lo conoscevo per niente, poi ho visto, quasi per caso, una sua antologica al Revoltella, alcuni anni fa…

Credo fosse il 2001, assessore Damiani: era ancora un’epoca felice, per la cultura a Trieste…

Sì, la data può essere quella, ma mi sono trovato davanti a qualcosa di travolgente, non avrei voluto uscire più dal museo.

Vedi come può capitare che si riscontrino singolari affinità tra due artisti come voi, che non si conoscono, che lavorano anche su progetti creativi del tutto distanti, ma che pure trovano una sovrapposizione emotiva e di fatto nel loro riconoscersi? Per esempio, sia in te che in Palčič è evidente il gusto del lavoro manuale e del trattare la materia. Ma tornando a Trieste, credo che sia proprio questo intreccio di culture e di esperienze diverse che alla fine affascina e fa si che una città di dimensioni medie, diciamo di duecentomila abitanti, possa venir percepita come una metropoli, tanto più se è adagiata in prossimità di una frontiera.

è così. Mi trovo immerso nella stessa sensazione quando sono vicino a un altro artista, Mario Palli, mio insegnante all’Istituto d’arte, che vive a Gradisca per una parte dell’anno, per poi trasferirsi a Lubiana e sul Carso, conosciuto forse più all’estero che da noi. Bene, è evidente che una persona con questo bagaglio culturale, con l’articolazione della rete delle sue relazioni, benché dipinga cose che sono l’opposto delle mie, reca attorno a sé un’aura di novità e di freschezza inventiva che sospinge naturalmente nella direzione di un sereno riconsiderare il proprio lavoro. Si tratta di quello che tu chiami «intreccio di culture e di esperienze», che costituisce un valore aggiunto non solo per le persone che ne sono direttamente e consapevolmente coinvolte, ma per un intero territorio, per un ambito culturale che ne risulta enormemente arricchito.

 

Devo dire che mi sento arricchito anch’io, quando poco dopo lo saluto e mi avvio a recuperare la macchina in un posteggio poco distante. Quanto Dot mi ha raccontato di sé e del suo lavoro è la conferma di molte cose che in precedenza avevo soltanto intuito guardando i suoi dipinti. Mi chiedo se saprò condensare quanto ho sentito in un’intervista che vorrei mettesse chi la leggerà in una condizione analoga a quella che provo lasciandomi alle spalle, un po’ a malincuore, lo studio e la bellezza che ti avvolge come il miele (direbbe Guccini) fluendo dalle opere incorniciate alle pareti e quella che si propone, incompleta, sul cavalletto.