SPECIALE SG L’attualità di Virgilio Giotti e Umberto Saba

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di Cristina Benussi

 

Due poeti come Saba e Giotti continuano a mandarci messaggi che a sessant’anni dalla morte sono più che mai attuali. Certo, per coglierli bisogna fissare alcune premesse basilari, a partire dalla considerazione della letteratura quale ambito non solo di conoscenza, ma anche di trasmissione di comportamenti etici. L’etica è qualcosa di diverso dalla morale, perché è legata a una nozione che trascende qualsiasi normativa esplicita, e perché si può facilmente coniugare con l’estetica. L’estetica, a sua volta, è un sentimento soggettivo e intersoggettivo che esprime le forme di un rapporto con l’ambiente naturale e antropico di cui facciamo parte. L’etimo stesso della parola, che viene dal sostantivo greco aisthesis, cioè sensazione, e dal verbo aisthanomai che significa percepire anche attraverso i sensi, indica che la forza del messaggio poetico nasce dalla carica di empatia prelogica che essa veicola. L’obiettivo è comunque alto: nel caso di una letteratura di tendenza la conservazione, pur limitata nel tempo, della visione del mondo del gruppo che la esprime; nel caso di una letteratura di ricerca, un suggerimento, sui tempi lunghi, sulle strategie necessarie alla conservazione della specie.

Giotti e Saba appartengono, come tutti i grandi, alla seconda prospettiva, ed è il motivo per cui continuiamo a compulsare i loro versi alla ricerca di un messaggio che soccorra al bisogno. Che infatti si è ben palesato e merita risposte urgenti, dato il rischio conclamato di un disastro ambientale. La rivoluzione industriale infatti, con le sue ferree leggi economiche, ha messo e continua a mettere in secondo piano gli effetti sull’ecosistema di una produzione compulsiva. In parte essa è dovuta a ragioni insopprimibili, come la crescita esponenziale degli abitanti del pianeta, ma in parte è incentivata dalla corsa a soddisfare bisogni indotti e non necessari. Tutti vogliono varcare la soglia del benessere di cui ha goduto finora una percentuale ristretta del mondo umano, e dunque è evidente come, tra tante altre calamità, il pianeta si stia pericolosamente inquinando. I poeti, i nostri poeti, avevano da tempo avvertito che era totalmente errata la prospettiva valoriale che muoveva l’umanità, tanto che nei loro versi proponevano “etiche” assolutamente controcorrente.

Virgilio Giotti sceglie di esprimersi in una lingua minoritaria ma non ancillare, anzi, in un dialetto che è vissuto come linguaggio aurorale, capace cioè di creare un mondo estraneo e contrapposto a quello codificato e linguisticamente logoro. Canzoniere, anzi Piccolo canzoniere in dialetto chiama con un voluto understatement la sua prima raccolta di poesia, dove i valori fonosimbolici e la ricerca di sonorità del verso richiamano la tradizione della composizione poetica, molto diffusa nella Trieste asburgica, il Lied. Questa canzone, come è stato osservato, ha saputo raccontarci proprio l’attimo di consonanza col mondo, il momento breve dell’armonia del singolo con il corpus più ampio di cui fa parte, sensazione destinata a breve durata. Nell’attimo fuggente il poeta avverte la malinconia della solitudine e la ricerca di una patria lontana, la voce dell’infinito e quella dell’interiorità, casalinga e pensosa. Coerentemente Giotti nell’esprimere tali sensazioni evita la concettualità filosofica, e preferisce accostarsi ai brandelli di realtà che ha di fronte; in quei frammenti di tempo, in quegli scampoli di un vissuto cosmico della specie, il nulla del destino del singolo si coniuga con l’affettività quotidiana avuta in sorte e destinata a spegnarsi. Lontano dalla psicoanalisi, che ovviamente ritiene sviante, il poeta nel corso della sua ricerca fissa alcuni elementi di un’etica piuttosto impopolare, comunque contraria a quella propria della società dei consumi. La canzone El pòvaro alegro, del Piccolo canzoniere in dialetto, è un autoritratto che consegna a suo fio, o meglio ai posteri per indicare una condizione che nessuno gli invidia, e che tuttavia è quella cui tutti dovrebbero ambire, perché «libero un pocheto » da tante contingenze. Il titolo della poesia non è un ossimoro, né rimanda a un bozzetto consolatorio, ma vuole indicare un esercizio di ricerca del senso interiore in un più ampio rapporto con gli altri e con la natura.

Giotti àncora il suo amore alla vita a versi che celebrano l’abbandono a un destino comune. Per lui il centro del suo mondo è la famiglia, quale nucleo primigenio di legami d’amore che la storia non è riuscita ad allargare oltre il proprio microcosmo e che, anzi, è pronta a distruggere, condannandolo alla solitudine. Il poeta scava alla ricerca di quel principio spontaneo che il giovane Lukàcs nei saggi Sulla povertà di spirito (1907-1918) chiama «bontà», qualcosa che si oppone dunque al «potere» e che neppure per un marxista qual egli è può coincidere con il socialismo. Giotti si accosta, credo consapevolmente, ai diversi elogi alla povertà formulati nel corso dei secoli, quali hanno proposto Meister Eckhart, Dostoevskij di Povera gente (1884), Walter Benjamin di Esperienza e povertà (1933). L’Esperienza infatti indica nella povertà ciò che per il senso comune è ricchezza: povertà è per lui, al contrario di quanto indica il senso comune, l’aver ceduto pezzo dopo pezzo l’eredità umana per avere in cambio una moneta da esibire, accettando come strumento di giudizio la razionalità strumentale ed economica. La povertà nobile, al contrario, non è sentita come diminuzione, anzi come forza aristocratica che permette di ridurre all’essenziale i bisogni, ed avere dunque sempre tutto quello che serve senza desiderare altro. Giotti insomma ci invita a ripensare ai valori della civiltà occidentale, che invece non esita a consegnarsi alle logiche della sopraffazione e della guerra pur di esibire i simboli esteriori del potere e del benessere.

Nel Quarto caprìzzio, nella raccolta composta dopo la vittoria italiana nella Grande Guerra, di fronte alle ondate di retorica politica, il suo autoritratto accentua quella ricerca di essenzialità. L’aspetto esteriore, volutamente dimesso con «el colaro suso, / la bareta sul muso;/ fora solo, studà, // ghe pìndola d’i labri / un mezzo spagnolato» fa pendant con quello interiore «pien de bruti pensieri». È l’immagine del poeta maudit, ma ovviamente senza l’enfasi satanica di chi affida alla poesia un ruolo sovversivo e salvifico. Quartine di settenari a rima baciata ritraggono episodi di una quotidianità ignara e marginale. «Mi, mi, mi son quel là!» è una chiusa epica, che indica la volontà di sottrarsi alle lusinghe di un mondo che deposita nell’apparenza il giudizio di valore dell’uomo.

Infatti, nel 1931, comincia una composizione rimasta in forma di frammento dal titolo El pòvaro. Ma questa volta non è lui, con la sua determinazione, a scegliere la povertà come scaturigine di essenzialità, chiarezza ed autenticità. Riferita a chi non l’ha eletta a modello di vita, quella condizione appare in tutta la sua degradata umanità. Le streghe ridono quando nasce un povero, che la madre nutre e scalda ma che, cresciuto, dai rifiuti dei ricchi dovrà dipendere per inventare i propri giochi; verrà vegliato non dalle «fate», ma da brutte vecchie «che le lo burla per quel che no ‘l ga». Il destino di quel povero, nella sua vita terrena, è uguale a quello degli altri, ma priva di ossequiosi ritualità, anche nella morte. Colpisce il senso di miseria infetta che incornicia il racconto di una vita da povero, che tale non avrebbe voluto essere: secrezioni organiche, fango, spazzatura, ospedali, sono risvolti simbolici di una civiltà che disprezza la povertà e che preferisce vivere nello spreco- immondizia. Povertà per Giotti non è dunque una categoria solo economica, ma anche antropologica: la sua scelta consapevole presuppone la ricerca d’esperienza, per sapere il senso di ciò che si fa, di fronte all’abisso dell’inconoscibile e nello stesso tempo al richiamo di quella che Schopenhauer chiamava la cieca ed ingannevole «volontà di vita». Che è il messaggio di un altro testo del 1931, El regalo dei siori, in cui i ricchi, seppur non coscienti della loro povertà umana, sono accusati di corrompere, con i loro regali inutili, l’animo dei più ingenui, pronti a venir intrappolati dalla logica dei consumi. Inutile dire che sono gli anni in cui vengono ripresi in certe zone della cultura italiana, il kiekegaardismo di Barth, la fenomenologia di Husserl e l’esistenzialismo Heidegger, filosofie che riportano l’attenzione sul valore dell’esistenza umana del singolo come esperienza concreta, sciolta da ogni sistema di pensiero e, ovviamente, fuori dalle categorie mentali che caratterizzano la logica dell’homo oeconomicus.

Umberto Saba, che con Giotti condivise diverse esperienze poetiche, non tanto all’elogio della povertà come atteggiamento etico punta, quanto a una compartecipazione ai destini di coloro che vengono scartati dalle logiche economiche vincenti: le creature del dolore che incontra nei vicoli malfamati della sua città. In questo senso, il suo Canzoniere può essere letto come un poema epico e lirico sulla sorte umana, quella comune a tutte le creature che Saba avvicina con irrimediabile simpatia, anzi amore. Elsa Morante, sua esegeta appassionata, ha scritto che questa è la «fortuna di Saba! giacché una legge irrimediabile dell’arte e della natura ha stabilito che non ci sia altro mezzo per trarre le forme della vita dall’informe della morte». L’opera poetica del poeta di Trieste offre insomma la rappresentazione dell’uomo moderno nella sua interezza, tanto che la sua poesia «non dimentica mai, nella sua pietà quasi materna la qualità vulnerabile di tutto ciò che vive … quasi in un continuo riscatto della simpatia sull’angoscia, e della vita sulla morte».

E in questa sua visione cosmica Saba include anche gli animali. La sua cultura ebraica gli ha consentito di avvicinarsi alla Qabbalah, che vive della dottrina delle Sefirot (Sefirah significa sfera), i dieci gradi diversi della manifestazione del divino nella catena dell’essere: in misura diversa lo stesso spirito circola in tutte le creature. Gli animali nella cultura occidentale sono stati sempre considerati inferiori all’uomo, perché istintivi e privi di raziocinio. E dunque sono potenziali vittime destinate a soccombere di fronte alle sue necessità, senza provocare rimorso alcuno in chi le sacrifica per il proprio benessere. L’antropocentrismo che senza scrupolo alcuno sfrutta gli animali, solo in tempi recenti ha subito qualche lieve ripensamento: ha scoperto che l’allevamento intensivo può drenare preziose risorse idriche, che eleva il livello di anidride carbonica nell’aria, che inquina per l’uso di prodotti chimici. La risposta vegetariana, se non vegana, può anche rifarsi, almeno in parte, ad un atteggiamento di pietas verso tutte le creature, soprattutto quelle più deboli e inermi. Che è l’atteggiamento di Saba: Infatti, il verso della «capra dal viso semita» ha rivelato al poeta che «quell’eguale belato era fraterno / al mio dolore» tanto da sentire «querelarsi ogni altro male, ogni altra vita». Non per nulla suggerisce al suo lettore di considerare A mia moglie come una poesia religiosa, anzi, come una delle poesie sue più belle: Lina è una bianca pollastra, una pettoruta e superba gallina, una gravida giovenca, una lunga cagna, una pavida coniglia, una rondine, una provvida formica, cioè una creatura metamorfica che restituisce l’intera gamma della femminilità, allo stato di natura, quella natura che va anche protetta e non solo sfruttata.