L’arte e il morbo

| | |

di Michele Diego

 

Nella grande mela a stelle e strisce, in cui tutto sembra per sua natura amplificarsi, il MoMa (Museum of Modern Art) si staglia come emblema delle contraddizioni culturali del difficile periodo che il mondo intero sta affrontando. In marzo il museo ha offerto gratuitamente diversi corsi online, così da permettere a chi è in quarantena di restare in contatto col mondo dell’arte e suscitando un meritato plauso generale. Sempre il MoMa, però, in aprile decide di sospendere tutte le collaborazioni con i propri educatori freelance, chiudendo così la propria sezione didattica. Il tutto avviene con un’email, in cui si precisa che potrebbero volerci mesi se non addirittura anni prima di poter tornare a finanziare i progetti didattici.

Nel frattempo Jerry Saltz, tra i nomi più noti della critica d’arte statunitense, scrive sulla rivista Vulture un articolo dall’inequivocabile titolo L’ultimo giorno del mondo dell’arte… e forse il primo di uno nuovo. Nell’articolo il critico spiega che, dopo un’iniziale (e piuttosto breve) fase ottimistica, ora la sua visione del futuro è alquanto cupa. Secondo Saltz, il Coronavirus porterà nel mondo dell’arte una frattura ancora più marcata tra le piccole realtà e le mega gallerie con pochi artisti super quotati. E già ora la situazione era critica per le piccole-medie realtà, con costi stellari per partecipare a «infinite fiere d’arte, volando continuamente tra biennali ed esibizioni intorno al mondo». I piccoli artisti e le gallerie sono quindi definitivamente destinati a scomparire? No, a detta del critico: «l’arte continuerà. Non c’è nemmeno bisogno di dirlo, perché l’arte è ben più grande e profonda del business che la supporta. […] Il virus non uccide l’arte”. E anche se il 99% degli artisti verrà portato al limite delle proprie possibilità, sopravviveranno “coloro che possiedono passione, ossessione e desiderio».

In Italia, coerentemente, i musei fanno uso della tecnologia nel tentativo di attrarre visitatori online. È possibile visitare da casa gli Uffizi o altri musei fingendo di camminare attraverso le loro sale; è possibile seguire delle lezioni in cui il direttore stesso spiega le opere della collezione, come nel caso del museo Egizio di Torino; e in generale i siti dei musei e le loro piattaforme social tentano di accorciare le distanze col pubblico.

Tale digitalizzazione dell’arte non sembra però un elemento di rottura rispetto a quanto accadeva prima della pandemia, ma eventualmente un’accelerazione di un processo già innescato. E non parlo solo dell’uso massiccio dei social come canale di comunicazione. Mostre in cui l’opera d’arte si smaterializza del tutto in favore di una tecnologia in grado di regalare nuove esperienze si stavano già diffondendo un po’ ovunque (mi riferisco per esempio alla mostra multimediale itinerante “Van Gogh Alive”, all’esposizione nell’aeroporto delle Marche “Raffaello – Una mostra impossibile” o alla mostra lionese “Picasso – L’esposizione immersiva”).

Nonostante capisca le ragioni di chi guarda con sospetto tali fenomeni, non posso sottrarmi dall’ammettere che essi potrebbero rivelarsi utili se non inevitabili. Un’ipotesi che rimbalza qui e là vuole che, finché il virus non verrà sconfitto in maniera definitiva, i viaggi saranno limitati perlopiù all’interno dei propri confini nazionali. Perché allora privarsi di una conoscenza delle opere estere, o limitarsi al guardarle in fotografia? In passato le fotografie stesse hanno rappresentato un’opportunità di diffusione e conoscenza dell’arte fino a quel momento impossibile, grazie per esempio alla famosa collana “I maestri del colore” negli anni ’60. Perché oggi non potremmo essere di fronte a un nuovo punto di svolta evoluzionistica in cui la fotografia viene rimpiazzata da nuove tecnologie?

In qualche modo, l’opera d’arte trascende dal supporto fisico che le appartiene – o, almeno, oggi ci consola pensarlo. Certo Federico Zeri, ben prima che il Coronavirus condizionasse le nostre vite, ci spiegava che la conoscenza di un’opera trascende dalla sua presenza e che il nostro amore per l’arte è amore per la conoscenza.