Francesco Burdin vent’anni dopo

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«Geniale autore triestino, scrittore imprescindibile per capire la narrativa italiana del secondo Novecento»

di Gennaro Rega

 

A vent’anni dalla sua scomparsa Francesco Burdin (Trieste 1916 – Roma 2003) continua a rimanere un “caso” letterario. È la definizione che Angela Fabris usava nel bel saggio intitolato Un de-scrittore irriverente: le strategie letterarie di Francesco Burdin (Campanotto 2004). Lo accostava, infatti, al “caso” più eclatante in ambito triestino: quello di Svevo. Ma precisava che Burdin «era ancora alla ricerca di una propria sistemazione, entro il panorama della narrativa italiana ed europea». L’autrice è docente di Letterature romanze presso l’Istituto di Romanistica dell’Università di Klagenfurt. Con questo libro ha realizzato una completa e scrupolosa ricognizione sull’opera di Burdin, avendo potuto, ad esempio, contattarlo ancora in vita. A lei Il Piccolo affidò “il coccodrillo” in occasione della morte dello scrittore avvenuta a Roma l’11 dicembre 2003. Ne riporto qualche passo. « […] geniale autore triestino; scrittore imprescindibile per capire la narrativa italiana del secondo novecento. Scrisse una decina di romanzi, due libri di aforismi; quattro raccolte di racconti. Molti gli attestati in forma di premi e di giudizi critici. Su tutti quello di Elvio Guagnini, che pubblicò lo straordinario collage di materiali eterogenei dal titolo La Frontiera Rovesciata (1997). Come autore di “frontiera” B. condivide un concetto variabile di patria. Altra sua ricorrente tematica è quella della identità. Del burocrate, dello scrittore e in definitiva dell’uomo contemporaneo. Sono di natura sperimentale molti suoi scritti. In particolare lunghissimo fu il periodo di gestazione del libro Marzo è il mese più crudele (1973): quasi vent’anni. Estraneo alle mode create dall’industria culturale respinse le suggestioni effimere. Ha creato romanzi che attivano l’intelligenza e la sensibilità critica del lettore. Una vocazione alla scrittura al massimo grado, capace di tradursi in splendidi tracciati letterari […] ».

Fabris conferma che a incoraggiarla nei suoi studi sull’opera del triestino è stato proprio Guagnini. La postfazione, Francesco Burdin, arcimboldo di un mondo in bilico, scritta da lui al libro in precedenza citato dalla Fabris, la suggerirei a chi volesse avviarsi alla conoscenza della polimorfa Weltanschauung di questo autore. Aggiungo soltanto che con passione il professore triestino, ad esempio nel settembre 2020, sulle pagine culturali del quotidiano cittadino, sollecitava i lettori ad avvicinare i testi di Burdin «che costituiscono un punto di riferimento indispensabile nella nostra narrativa degli ultimi cinquant’anni». Un giudizio altrettanto lusinghiero l’aveva espresso in un articolo dell’ottobre 2004 in occasione dell’incontro presso il Circolo di Cultura e Arti, intitolato La frontiera rovesciata. Ricordo dello scrittore triestino Francesco Burdin: «[Burdin] è uno di quegli scrittori molto apprezzati dalla critica, ma che attendono di essere più largamente apprezzati dal largo pubblico […]».

Eppure questi motivati giudizi non sono riusciti nel tempo a coagulare intorno alle opere dell’autore triestino un forte interesse del pubblico.

Forse perché alcune tematiche fondative dei suoi libri sembrano essere state accantonate in questo ultimo ventennio? Eppure la riflessione sulla crisi esistenziale e psicologica del personaggio borghese (piccoli impiegati, funzionari di alto livello, dipendenti pubblici, autonomi etc.) che caratterizza, ad esempio, sia il suo romanzo d’esordio, Caduta in piazza del Popolo (Cappelli 1964), sia il più maturo e provocatorio Eclisse di un vice direttore generale (Rizzoli 1969) continua tutt’ora ad essere sollecitata a causa delle ambigue e fluide condizioni lavorative e psicologiche prodotte e generate dalla novità del lavoro digitale. Il tema pirandelliano dell’essere e dell’apparire, della necessità relazionale di indossare una maschera, dell’inettitudine a fondere il destino individuale in quello storico, è cardine di alcuni suoi libri quali Scomparsa di Eros Sermoneta (Rizzoli 1967), Viaggio a Varsavia (Marsilio 1973). L’accelerazione ininterrotta ma mai eclatante degli attuali comportamenti di vita, pronti repentinamente a sciogliersi da forme e abitudini che si davano per scontate solo qualche anno prima, genera ancora oggi angoscia e alienazione, e l’individuo non riesce a sopirle. Infatti «continuiamo a parlare e a comportarci come se ancora ci identificassimo in quelle vecchie forme» (Doris Lessing), ma subito dopo ne confessiamo la mistificazione.

Infine, restringendo forzatamente la polimorfa poetica di questo autore di cui è difficile individuare il centro, uso la terminologia di Fabris e Guagnini facendo riferimento alla “identità di frontiera” di Burdin. Il libro di racconti Ai miei popoli (Dedolibri 1987) presenta personaggi vittime della Storia e impossibilitati ad esprimere pienamente la propria identità. Costoro sono più frequenti «in quei luoghi di frontiera esposti ai contatti, ai confronti e qualche volta anche agli scontri con altre civiltà. Rappresentano un universo mosso. La memoria è il loro ancoraggio». Ho riportato liberamente alcune frasi a p. 29 del saggio citato all’inizio, che colgono con chiarezza, anche su questo tema, l’universalità dei testi di Burdin. Il mito e la realtà della Trieste asburgica, l’Austria e la Mitteleuropa nel momento della disgregazione foriera di epocali cambiamenti nell’Europa del Novecento, le barriere geografiche da riconsiderare accanto a quelle storiche, sono eventi su cui riflettere in una fase che in modo imprevedibile ci sta drammaticamente coinvolgendo proprio su queste problematiche.

Tralascerò deliberatamente i romanzi e ilibri di racconti pubblicati in vita da Francesco Burdin e mi limiterò a qualche osservazione sulla sua produzione di pubblicista. Infatti tale attività, cioè la scrittura di testi creativi per riviste e giornali, lo ha accompagnato per tutta la vita, a partire dagli anni Quaranta. Cesare Zavattini, che allora dirigeva il settimanale Il Milione, nell’ottobre del 1938 gli diede modo di debuttare poco più che ventenne. La breve scheda di presentazione al pubblico terminava con questo giudizio: «[…] un giovane che dimostra una sicura maturità letteraria». La novella si intitolava Cose dell’altro mondo. Il suo surreale umorismo era affine alla “cifra” stilistica di Zavattini. La situazione rappresenta delle anime in attesa di entrare in Paradiso. Su ognuna grava ancora il rammarico delle cose terrene appena lasciate o la preoccupazione per la propria forma da cui poc’anzi si è liberata. Le ultime sequenze tenderebbero al patetico, ma Burdin con una imprevista battuta scherzosa sugli angeli, “vira” il racconto verso il destino già segnato per il gruppo delle anime.

Durante il conflitto mondiale scrisse alcune novelle per Il Corriere Veneto, giugno 1940, Il Veneto, settembre 1940, Il Meridiano di Roma, gennaio 1941, Roma Fascista, gennaio 1943. La chiromante, ambientato nei primi del Novecento, è un melanconico e nostalgico bozzetto di vita, quella della sedicente contessa Nadia. Nei racconti: Un uomo felice, La macchia scarlatta, Uno scherzo, il tema ricorrente è la morte, in qualche modo liberatoria nei confronti di esistenze mediocri. Cito le emblematiche righe finali di Un uomo felice: «Ironica allora la morte e leggiera ed evanescente come una nuvola, spense d’un soffio quel cuore tremolante più che la fiamma di una candela, spostò il bottone che quietamente tornò al suo posto orizzontale, e uscì dalla finestra ridendo saporitamente di quell’uomo felice, sempre felice, eternamente felice, che era morto il più infelice degli uomini».

Per la ricerca di questi documenti mi sono avvalso della bibliografia presente nel saggio di Angela Fabris. Tuttavia non tutto è facilmente consultabile. Sui due racconti che l’autore triestino propose a guerra finita (Pomeriggio senza fiato, agosto 1946 e Avventura con lo spirito, giugno 1947) non mi è stato possibile documentarmi.

Nel dopoguerra egli avviò una brillante carriera  nel settore dei programmi radiofonici della RAI con responsabilità di coordinamento dei servizi giornalistici della emittente di Stato, nelle sedi di Bari, Milano, Torino e Roma. A partire dagli anni Settanta, quando la sua fama di romanziere si è già affermata, intensificò i suoi interventi su quotidiani e riviste culturali.

I lettori della “terza pagina” de Il Piccolo fra il 1972 e il 1975 ebbero la possibilità di leggere alcuni racconti che fanno parte delle ventuno storie che compongono Viaggio a Varsavia, romanzo “plurale”, pubblicato nel marzo 1973 dall’editore Marsilio. Nell’esergo d’apertura si può intuire il motivo della struttura a “schidionata” di un romanzo all’apparenza frammentato: Ventun proposizioni per verificare l’attualità del problema, cioè l’indecifrabilità dell’esistenza. Ogni storia, e ciò risulta essere un importante dettaglio stilistico a conferma della interpretazione unitaria del testo, si avvia con la formula “un uomo”, accompagnata da un predicato verbale d’azione. Questo anonimo protagonista narrato «si sveglia, assiste, riceve, si imbarca, decide, entra etc». Poi all’improvviso un evento pretestuoso e imprevedibile scombina il percorso solito e prestabilito di questa sorta di “uomo senza qualità” alla Musil, e il lettore viene risucchiato in un autentico macguffin da film giallo e condotto ad una conclusione implosiva.

In questo libro confluirono cinque storie, tutte con lo stesso incipit : «Un uomo…» pubblicate su Il Piccolo fra gennaio e luglio 1973.

Altre quattro non trovarono spazio nel romanzo, anche se le caratteristiche stilistiche sono simili.

La visita. Sulla scena di una stanza d’ospedale dialogano un padre anziano e un giovane figlio. Il padre filtra lucidamente impressioni e riflessioni sui gesti e sulle frasi all’apparenza banali che il figlio palesa durante la visita. Intanto ripercorre amaramente le fasi del loro rapporto. Mentre lui sta giungendo al limite della vita, comprende che il figlio è incapace di cogliere la disperazione per l’imminente distacco: «la parte che è in me di lui domani non esisterà più, solo la parte che è di me in lui continuerà a vivere per qualche tempo ancora».

Il bavero di velluto. “Un uomo” consuma fra malanni e paure l’esistenza, assillato per la propria condizione di salute e per il proprio ruolo nel mondo. Alla fine si rende consapevole che essa è un’attesa infruttuosa delle soddisfazioni e sicurezze che pretenderemmo di avere.

In una notte silenziosa. «Il mio svago è ormai dentro di me» così conclude, con tetro umorismo, il protagonista di questo racconto dopo aver salvato la moglie dal suicidio e aver preso coscienza della devastante insoddisfazione della donna per la vita che trascorre. Dunque un gesto generoso si trasforma in un vulnus esistenziale, perché la verità che nel frattempo l’uomo ha scoperto lo costringe ad un’ansia perpetua.

Tre epigrammi. Con stile aforismatico, qualità rilevante di Burdin scrittore, vengono prospettate tre situazioni paradossali, per rappresentare i limiti del comune concetto di libertà, la casualità coibente della vita, le celate pulsioni di odio e di vendetta che sono sottintese ai rapporti fra gli esseri umani.

La collaborazione con il quotidiano triestino continuò anche l’anno dopo, ma da Burdin non furono proposti racconti bensì articoli di varia umanità. Nel 1975, fra aprile e agosto, appaiono tre novelle: Il simulatore, Tempo da perdere, Il colpo di pistola. Lo scrittore accantona l’inquietante avvio “Un uomo” delle precedenti, ma replica tematiche con le quali scandaglia i labirinti della psiche umana e gli imprevisti della esistenza.

Mi piace ricordare che nell’aprile di quell’anno sulla “terza pagina” de Il Piccolo Stelio Crise pubblicò un racconto dal titolo Pura ipotesi. Molti indizi e particolari fanno pensare ad un’ironica “ripresa” dell’amaro “humour” e della disincantata rappresentazione della realtà del suo tempo che Burdin aveva proposto in quegli anni al pubblico triestino. Dovendo scrivere un testo necessariamente “breve”, il bibliotecario triestino si focalizza soprattutto sulla pomposa stupidità di un manager di alto grado che con la sua lampante incompetenza pretende di imporre con autorità una nuova “linea” alla sua azienda. Infatti una mattina accade che si svegli con la consapevolezza di essersi trasformato (ma precisa Crise, come lo scarafaggio di Kafka) in Generale Direttore, lui che prima era Direttore generale. Il chiasmo già di per sé risulta umoresco e derisorio. Perciò per tutta la giornata compie strampalate azioni che confermano come egli sia fermamente convinto di essere tale. Ma alla fine due membri della Commissione interna, constatata la sua pazzia, lo sollevano di peso dalla poltrona e lo costringono a salire su un’autoambulanza. Lo scrittore anche nel finale del racconto sembra ammiccare alle modalità burdiniane e propone tre ipotesi su questa vicenda, tutte però da verificare. Dunque il testo di Crise non soltanto nell’avvio e nel paradossale svolgimento della storia, ma anche nella chiusa, sembra alludere alle tematiche e ai personaggi di tanti testi di Burdin. Non è trascurabile, ad esempio, il riferimento a Eclisse di un Vice Direttore Generale, pubblicato da Burdin sul finire degli anni Sessanta. Si tratta di uno dei rari esempi di romanzo aziendale nella narrativa italiana a cavallo fra anni Sessanta e Settanta. Infatti come Il padrone di Goffredo Parise e Barare o volare di Gilberto Finzi, offre un vero prontuario dell’inutile che i “colletti bianchi” di quell’epoca nelle loro mansioni spesso pretendevano di applicare. Oppure, per restare ai racconti, Ipotesi di verbale di una inchiesta sulla irreperibilità di un aereomobile di linea, pubblicato nel 1983 nel n° 4 della rivista La Collina delle Edizioni Nord, che con gelido procedimento burocratico esamina minuziosamente tutta la casistica di una realtà drammatica, di cui tuttavia non si saprà mai nulla di certo.

Non spingerò oltre i primi anni Ottanta questa analisi. Secondo una modalità compositiva già in precedenza adottata, l’autore continuò anche in quell’epoca a proporre sulla carta stampata testi confluiti in seguito in molte pagine di romanzi e raccolte, come Antropomorfo, Manes, La frontiera rovesciata.

Vorrei, almeno, citare I colpevoli, nel numero di gennaio 1976 della rivista Il racconto. Il lettore vi percepisce con inquietudine il clima degli “anni di piombo” collegato alle trame occulte tese a tenere sotto controllo la Società e cittadini inermi, spesso accusati di colpe (forse) non commesse, ma che costeranno loro la libertà individuale e il confino in campi di lavoro coatto. Il finale, problematico e aperto, si interroga sulle aporie del pensiero quando voglia decifrare il segreto, all’apparenza imperscrutabile, di colpe che ci sono state ingiustamente attribuite con un iniquo castigo. Infatti, mutate le condizioni storico-sociali, anche il giudizio sulla pena subita potrebbe mutare e rendere l’individuo più consapevole della relatività della Storia.

Burdin di frequente sceglie la forma del “verbale”, del “memoriale”, della “relazione”. In questo modo «in una progressione di ipotesi, e talvolta sottoipotesi» (Guagnini) egli spinge il suo testo verso un nodo di dubbi e di pessimismi, che neanche un procedimento formale apparentemente razionale e indagatorio riesce a sciogliere. Su tale linea si dipana la scrupolosa testimonianza autobiografica contenuta in Memoriale di un aspirante alla carriera diplomatica apparso su Nuova Antologia nel gennaio-marzo 1980. Il protagonista rivela la grottesca situazione in cui l’hanno costretto il talento di una eccezionale memoria e la sua ampia conoscenza delle lingue. Desideroso di aspirare alla carriera diplomatica, si sottopone ripetutamente al vaglio di una fantasmatica commissione che gli nega questa possibilità e continua a proporgli invece un’altra strada: quello di collaboratore dei Servizi segreti. A causa di ciò è costretto a cambiare per dieci volte identità, finché all’undicesima gli viene restituita quella originaria. Dunque la pretesa dell’estensore del memoriale sarebbe quella di raccogliere i frammenti della sua esistenza per reclamare un senso alla lacerata vita che è stato costretto da forze occulte e inesplicabili a subire.

In conclusione cito il primo aforisma contenuto in Frammenti di un mondo in bilico, Mondadori “I Meridiani” 1994-1996. Nella sua carriera Francesco Burdin ha cercato «un libro capace di trasformare il lettore. Ogni scrittore aspira a questo risultato, anche se non è credibile che esso possa essere ottenuto da “un” libro». Lo sforzo di ripercorrere oggi il lungo, complesso tracciato della scrittura dell’autore triestino potrebbe essere ripagato con una simile soddisfazione.

 

 

Francesco Burdin