Addio ad Aldo Famà

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Ci sono degli articoli che uno non vorrebbe mai scrivere e questo è sicuramente, per me, uno di quel tipo ruvido e spinoso, perché devo dire qualcosa di un amico che non c’è più, di un artista, Aldo Famà, il cui cuore si è fermato pochi giorni or sono. C’eravamo incontrati per caso il 5 novembre, mentre io entravo nella sala dove si doveva presentare una mostra e lui e la moglie Giuliana ne uscivano, spazientiti per il ritardo della manifestazione. Niente poteva far supporre che quello sarebbe stato l’ultimo incontro, consumato tra sorrisi accoglienti e qualche insipida battuta.

Non posso dire che la mia amicizia con Aldo sia di vecchia data, ma dirò come un’intesa tra noi si sia consolidata subito, per la stima che sia lui che io avevamo per il lavoro dell’altro. Lui è stato un lettore attento e curioso fin dai tempi in cui la città disponeva di «Trieste ArteCultura», poi socio dell’Associazione Il Ponte rosso, per sostenere questa nostra attività d’informazione, mentre io ricordo che fin dagli anni ’70, imparai a riconoscere il suo lavoro tra quelli degli altri artisti che esponevano con lui, in collettive che, se accentuavano progressivamente l’originalità della sua personale ricerca formale, testimoniavano anche del suo interesse per quanto si muoveva intorno a lui, non perdendosi nulla che riguardasse il lavoro dei suoi colleghi.

Autodidatta, dopo il diploma di ragioniere aveva studiato all’ISEF di Roma e aveva poi lavorato come insegnante di educazione fisica, coltivando in parallelo la sua vocazione per la pittura e per la grafica, che si manifestò agli esordi in forme realiste, d’ispirazione postimpressionista, ambiti che abbandonò ben presto per indagare le possibilità offertegli dall’ astrazione nella pittura e nella grafica, praticate entrambe con assiduità e con una coerenza formale non comune, soprattutto in un percorso artistico protrattosi per oltre sessant’anni. La sua inesausta ricerca e il consolidarsi di una sua raffinata poetica poggiano su presupposti di rigore formale e di estrema pulizia, che si traducono sul foglio o sulla tela in composizioni fortemente dinamiche, secondo un progetto dove forma e colore si piegano all’esigenza di esprimere il pensiero o l’emozione che dell’opera costituiscono il movente. Si ha così, particolarmente nella più recente produzione, un’organizzazione dello spazio anch’essa astratta, trattandosi di figure che, stagliandosi su un fondo neutro, di solito privo di ogni riferimento visivo funzionale all’orientamento, sul quale si staglia secondo modalità esecutive che concorrono – facilitate da opportune mascherature in fase di creazione dell’immagine – a  una composizione dove i singoli elementi sono identificati non soltanto dal colore, di norma steso in campiture compatte e prive di ogni ombreggiatura, ma anche dall’inserimento di superfici materiche, ottenute mediante addensamenti di colore o dall’inserimento a collage di carte (ritagli di giornale o di carta da parati) che si contrappongono alle geometrie piane delle aree vivacemente colorate. Questa latente pulsione verso il tridimensionale, peraltro già esercitata in passato con approcci alla scultura, ha trovato nel giovanile entusiasmo e nella curiosità del Famà più recente, ormai ottuagenario, l’interesse verso le possibilità offerte dalle più attuali tecnologie, che gli hanno consentito, coadiuvato da un tecnico più esperto nell’uso di software ed hardware per la stampa in 3D, di trasferire in uno spazio a tre dimensioni le sue liriche prima confinate sulle superfici piane di fogli o di tele.

Addio a un amico di cui ci mancherà il sorriso accogliente, l’ironia benevola, l’impegno artistico e intellettuale, la magia e la freschezza del suo lavoro fecondo.