Diario di un paese che non c’è più

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Un diario in cui vengono elencati, anno dopo anno, mese dopo mese, giorno dopo giorno, gli episodi più significativi di una vita. Ma non è la vita di una persona, è la vita di un Paese. Un Paese che non esiste più: la Jugoslavia.

L’autore, Bruno Maran, è uomo di passioni e la penisola balcanica è una di queste, anzi, è la più sentita, la più vissuta con continui ritorni sui luoghi. Fotoreporter di Stampa Alternativa, ha firmato grandi reportage da Bosnia, Macedonia, Croazia, Serbia e Kosovo, e pure da India e Sri Lanka. Co-fondatore del Gruppo Controluce, collabora con Radio Cooperativa. È attivo nella sua Padova, ma ha preso parte a decine di mostre fotografiche personali e collettive in tutto il Nordest. Ha realizzato due documentari Zastava AnnoZero e Trieste-Risiera di San Sabba. E ha pubblicato il saggio Una lunga scia color cenere. Fatti e misfatti del regio esercito al confine orientale (edito da La Città del Sole, 2013).

Il diario di un Paese che non c’è più ha per titolo Dalla Jugoslavia alle repubbliche indipendenti, ed è corredato dalla prefazione di Riccardo Noury, portavoce italiano di Amnesty International, blogger e scrittore, e da un’introduzione di Luca Leone, giornalista, scrittore ed editore.

Maran ha svolto un lavoro certosino di raccolta di dati e informazioni per fornire al lettore un ampio quadro attraverso il quale spiegare la tragica storia dell’utopia jugoslava. Comincia nel 1941 anno in cui la prima Jugoslavia, quella del regno, viene cancellata dall’invasione tedesca e italiana e in cui comincia la resistenza capeggiata da Tito. Il Paese è frantumato: la Serbia è sotto la diretta occupazione tedesca. Montenegro, Dalmazia, parte della Slovenia, Albania e Kosovo sotto quella italiana. La Macedonia è in mano bulgara e la Vojvodina in quella ungherese. Il 10 aprile in Croazia viene proclamato uno stato indipendente, nominalmente affidato ad Aimone di Savoia Aosta, che non vi mise mai piede. Il nuovo stato comprende anche l’Erzegovina e ampie fasce territoriali della Bosnia. Il potere viene esercitato dagli ustascia, i fascisti locali, sotto la guida di Ante Pavelic, finanziato e sostenuto da Mussolini. Il regime ustascia, con la complicità delle gerarchie cattoliche, perseguita con tremenda efferatezza serbi, ebrei, rom e naturalmente gli antifascisti: il 23 agosto dello stesso anno apre il lager di Jasenovac.

Gli anni della guerra, dell’affermazione di Tito come capo della resistenza, dei crimini commessi da nazisti, fascisti, ustascia, cetnici, domobranci sono raccontati da Maran con dovizia di particolari, come quello sul valore dei combattenti italiani che si erano uniti ai partigiani jugoslavi dopo il “ribaltone” del ’43, e come la famosa frase “Tudje necemo, svoje ne damo” (L’altrui non vogliamo, il nostro non diamo) pronunciata da Tito sull’isola di Lissa quando dà inizio (agosto ’44) alle operazioni in Dalmazia. Il dopoguerra sarà lungo e travagliato, specie con l’Italia. Ma Maran non si sofferma tanto su questo aspetto, preferendo approfondire gli anni della formazione della seconda Jugoslavia, quella comunista, in principio rigida e dogmatica, fino alla rottura con Stalin e alla necessità di cercare una nuova via, che sarà quella dell’autogestione. Nel 1963 nasce la Repubblica Socialista Federale Jugoslava. Viene varata una seconda Costituzione (la prima era del ’46) in cui si esalta appunto l’autogestione, viene smantellata la pianificazione centralizzata, si apre al mercato e alle piccole proprietà private, vengono concessi i passaporti a (quasi) tutti i cittadini ed è consentito di andare a lavorare all’estero; all’inizio gli emigrati saranno 200 mila ma arriveranno presto al milione. E il Paese si apre al turismo.

Ma nei medesimi anni crescono le inquietudini fuori e dentro la Jugoslavia. All’estero sono in azione i fuorusciti croati che compiono attentati ai quali rispondono con pari violenza i servizi segreti jugoslavi. All’interno cominciano a muoversi gli intellettuali riuniti intorno alla rivista Praxis, nata nel ’64 negli atenei di Zagabria e Belgrado. Ad essa si affiancheranno successivamente altre pubblicazioni culturali come Nova Revija e Mladina dando vita a un dibattito politico che chiede cambiamenti profondi. In Kosovo continuano le rivolte degli albanesi e la contrapposizione con i serbi della regione si fa aspra. I musulmani di Bosnia nella Dichiarazione Islamica invocano una rigenerazione morale e religiosa, un ritorno ai valori islamici.

E arriviamo all’anno cruciale della Jugoslavia: il 1971 quando scoppia quella che viene chiamata la “primavera croata” sull’onda delle emozioni suscitate dalla “primavera di Praga” di tre anni prima, soppressa dai carri armati sovietici. Ma la “primavera croata” è diversa perché l’accento viene posto sulle questioni nazionali: compare nelle cronache il nome di Franjo Tudjman, croato, ex generale dell’Armata diventato uno “storico”. La situazione è tesissima tanto che a Zagabria, in luglio, Tito dichiara al Comitato centrale: “In certi villaggi i serbi diventano nervosi, si armano… Volete tornare forse al 1941? Io preferisco riportare l’ordine col nostro esercito, altrimenti quando non ci sarò più, il Paese esploderà”.

Per dare risposta alle richieste di maggior democrazia e di maggiore autonomia, per arginare i nazionalismi, nel ’74 viene varata la terza Costituzione della Jugoslavia di Tito. Lunga (406 articoli) e macchinosa, è il tentativo di Edvard Kardelj – l’ideologo sloveno che ispira l’organizzazione statuale jugoslava sin dal ‘45 – di imbrigliare e regolamentare uno stato complesso, eterogeneo e percorso da spinte centrifughe. Ma è anche l’ultima, tanto che appena tre lustri dopo, nell’89, Belgrado ne rivede profondamente l’impianto eliminando l’autonomia delle sue due regioni, il Kosovo e la Vojvodina, che era stata sancita proprio per limitare la preponderanza serba. Come era stata prevista la secessione dei singoli stati e forme molto ampie di autonomia.

Nel 1980 Tito muore e la sua creatura corre verso il baratro: nel 1986 il Memorandum dell’Accademia serba delle Scienze e delle Arti, attribuito allo scrittore Dobrica Ćosić, fornisce le basi culturali al nazionalismo locale con la teoria della “Grande Serbia”. Nel 1989, nel fatale giorno di San Vito, il 28 giugno, il discorso di Slobodan Milošević a Kosovo Polje dà fuoco alle micce. E sarà la lunga guerra (civile) jugoslava.

Maran riporta puntigliosamente le tappe della dissoluzione: le riunioni della presidenza federale, i tentativi di risoluzione delle controversie, i timidi e indecisi interventi dell’Europa che si chiama ancora Cee (Comunità economica europea). Racconta i primi scontri a Plitvice nel ’91 e poi a Borovo Selo in Croazia e ancora la guerra dei dieci giorni in Slovenia.

Non tralascia di rilevare come questo conflitto jugoslavo sia una “guerra mediatica” e riporta la significativa osservazione dello scrittore Filip David: “Ogni pallottola è stata preceduta dallo sparo di una parola” e il ruolo significativo di agenzie specializzate come “Ruder&Finn”. Quanti inganni, in cui vengono trascinati anche giornalisti di valore.

Quasi 200 delle oltre 400 pagine di questo volume sono dedicate alla guerra: da Vukovar a Sarajevo, da Mostar a Srebrenica per citare i luoghi dei massacri più noti. Il rosario dei crimini è infinito: contrabbando di armi, violazioni delle tregue, combattimenti selvaggi, bombardamenti, spari dei cecchini, esecuzioni sommarie, torture, violenze, ruberie, stupri; questi ultimi usati come arma bellica. Maran affida la sintesi della tragedia a Ennio Remondinoo, uno dei più lucidi e partecipi cronisti della guerra jugoslava: “Ho visto il naufragio dei caschi blù dell’Onu a Srebrenica e ho visto l’indignazione internazionale a intensità variabile fra il sonno quadriennale della Bosnia e la frenesia umanitaria per il Kosovo. Ho visto un regime dispotico e traballante, quello di Milošević, trarre forza e sostegno interno dall’accerchiamento internazionale e dalle bombe Nato. Ho visto l’uso disinvolto dei media nel creare consenso e riprovazione a comando. Le sofferenze pesate e divulgate col bilancino della politica”.

Dopo quattro anni si conclude l’assedio di Sarajevo con il suo spaventoso bilancio di morti, feriti e fuorusciti che Maran elenca con precisione. Viene firmato il trattato di Dayton che sancisce una precaria pace tra Serbia, Croazia e Bosnia Erzegovina creando uno stato finto in quest’ultima. Ma sancisce anche l’incapacità dell’Unione europea (com’è diventata la Cee nel ’93) di fronteggiare questa crisi. Qualcuno ha detto che “l’Europa è morta a Srebrenica” e le cronache recenti lo confermano. E sancisce che senza l’intervento americano non si smuove nulla. Accadrà anche nel ’99 quando scoppierà la crisi del Kosovo e saranno decisi i bombardamenti sulla Serbia.

Nel frattempo sono nate e si sono consolidate le nuove repubbliche: la Slovenia che entra per prima nell’Unione europea (primo maggio 2004); la Croazia che patisce la “democratura” (copyright di Predrag Matvejević) di Tudjman e comincia a fare i conti con i suoi crimini di guerra; la Macedonia; il Montenegro che si stacca dalla Serbia che vive anni tormentatissimi fino alla caduta di Milošević, consegnato al Tribunale dell’Aja il 28 giugno 2000, nel giorno di San Vito.

Ma per i Paesi nati dalle ceneri della Jugoslavia non c’è pace, Slovenia a parte: la Croazia stenta ad entrare nell’Unione europea a causa dell’affare Gotovina, il generale accusato di crimini di guerra nell’operazione Tempesta che ha liberato la Krajina, che verrà catturato nel 2005 e finirà nella cella accanto a Milošević, per essere assolto dal Tribunale dell’Aja. La fragilissima democrazia serba subisce un duro colpo con l’assassinio del premier Zoran Đinđić, che aveva deciso la consegna di Milošević al Tribunale internazionale per i crimini nella ex Jugoslavia. Dopo una lunga latitanza finiscono in galera anche Radovan Karadžić e Ratko Mladić, il poeta-psichiatra presidente della Republika Srpska di Bosnia e il macellaio di Srebrenica. Karadžić, riconosciuto responsabile del genocidio di Srebrenica, è stato condannato pochi giorni fa a quarant’anni di prigione, la sentenza per l’esecutore materiale, Mladić, è attesa per il prossimo anno.

Anche la Macedonia è attraversata da gravi tensioni tra macedoni e albanesi e si trova in prima linea ad affrontare la nuova emergenza che sconvolge i Balcani: i migranti.

Copertina:

Bruno Maran

Dalla Jugoslavia alle repubbliche indipendenti

Cronaca postuma di un’utopia assassinata

e delle guerre fratricide

prefazione di Riccardo Noury

Infinito Editore, 2015

416 pagine, 19 euro

Per dare risposta alle richieste di maggior democrazia e di maggiore autonomia, per arginare i nazionalismi, nel ’74 viene varata la terza Costituzione della Jugoslavia di Tito

 

 

“Ogni pallottola è stata preceduta dallo sparo di una parola”