Le sette stanze di Giuseppe O. Longo

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In queste storie, c’è tutto il presente e il futuro precipitato dentro il gorgo di passioni tristi e sentimenti amari, tutto il declino e la prevedibile catastrofe dell’homo sapiens e del suo mondo infettato di detriti, scorie, veleni

di Fulvio Senardi

 

Con i racconti di Sette Stanze (Jouvance, 2020, I’anno della Grande Epidemia, pp. 240, € 22) Giuseppe O. Longo aggiunge un altro tassello a quel suo monumentale corpus di forme narrative brevi senza eguali, per ampiezza e varietà di temi, nella letteratura italiana dei nostri giorni. Bisogna andare indietro fino alle 246 novelle di Pirandello per trovare qualcosa di simile. E con Pirandello, il cui nome non si è fatto a caso, almeno un importante punto di contatto: per entrambi la forma breve – la novella o racconto in tutte le sue pressoché infinite variazioni – è quello strumento letterario che meglio registra la caoticità, l’imprevedibilità, la contraddittorietà dell’esistenza, la cui superficie apparentemente “liscia” è solo la veste rassicurante di cui si avvale l’intelligenza per non “sragionare” nella sua battaglia quotidiana per imporre una disciplina (psicologica, morale, politica, sociale, e, in primis, di metodologia ermeneutica) alla frammentazione dell’Io, alle contraddittorie manifestazioni della vita, all’“ordinato” marasma delle particelle elementari, quei grumi di materia-energia che vanno a formare, con le loro danze scomposte, lo splendido velo di Maya dei fenomeni (non dimentichiamo che Longo, già docente universitario, è anche un importante scienziato, attento ai temi dell’intelligenza artificiale, della cibernetica, dei risvolti collettivi della rivoluzione informatica).

Se il romanzo tende a riproporre un mondo coeso con una sua definita e armoniosa configurazione, la novella è l’esplorazione del particolare, meglio se dissonante, lo studio di un frammento unico e irriproducibile, l’attenzione alla scheggia, rispetto al tutto plurivoca e incoerente quanto rivelatrice della falsità di ogni scorciatoia interpretativa, di ogni accomodamento etico e intellettuale. Il grande mistero dell’Essere, così come si manifesta nel Vivente e nell’Inanimato, è il preferito terreno di indagine di Longo scrittore; e se nella varietà delle maniere e dei temi, nel ricorrere a motivi nuovi, quasi fantascientifici o nel ripercorrere i sentieri antichi di un’affabulazione garantita dalla tradizione è facile riconoscere le capricciose folate del vento dell’ispirazione, non per questo il lettore avvertito cessa di udire l’eco, in ogni pagina del nostro narratore, della domanda con la quale l’Islandese sfida il silenzio indifferente della Natura: «a chi piace o a chi giova cotesta vita infelicissima dell’universo conservata con danno e con morte di tutte le cose che lo compongono?».

Se Leopardi giungeva però alla riflessione filosofica sulla scorta dell’eudemonismo settecentesco, Longo, con lucida coscienza di scienziato, non lancia il guanto in faccia ai numi che reggono il destino: il suo materialismo, che tanto lo accomuna al poeta, lo pone nella posizione dell’osservatore neutrale e lo avvicina ai grovigli della vita sull’onda di una fascinazione senza sdegno: «sentivo che la vita era splendida e orribile, che non si curava né di mia moglie né di me né del nostro bambino, ma che attraverso di noi si protendeva cieca e bramosa verso una meta inconoscibile, lontana sanguinosa e crudele, una bestia affamata pronta a balzare su ogni cosa per conservarsi, in una sorta di replicazione demente e ingiustificabile […] la vita enorme che tutto avvolgeva, che partiva invisibile e poi diventava sangue, sperma, amore e perfidia, odio e malattia e amarezza, contemplazione e dolcezza, nel corpo, con il corpo per il corpo, la vita smisurata, incomprensibile, furibonda nel suo dipanarsi implacabile […]» (2013, Notte di febbraio).

Quanto alle storie, c’è tutto il presente e il futuro precipitato dentro il gorgo di passioni tristi e sentimenti amari di Sette stanze (queste le sezioni: crudeltà, disperazione, infermità, malia, nostalgia, disperazione, vecchiezza), tutto il declino e la prevedibile catastrofe dell’homo sapiens e del suo mondo infettato di detriti, scorie, veleni. Nella parabola della Voce dal tempo (1990, sullo spartito della fantascienza) due esponenti di un’umanità ridiventata primitiva vendicano il regresso della civiltà sul corpo metallico ma inerme di un robot, un sopravvissuto, dal volto bello come una statua antica, della razza dei dominatori; nelle Prove di città desolata 2222 (2012, in forma di dramma da leggio) si registra il piagnucolio di un’umanità ormai ibridatasi con le macchina e che il crollo della Rete ha lasciato orfana e del tutto incapace di autonomia: «a tutti noi, creature della Rete, le voci davano gli ordini, i consigli, cantavano con toni melodiosi, erano le nostre sirene». Le fantasie distopiche coltivate da un’umanità che subodora l’abisso oltre i margini sempre più slabbrati del suo universo perfettamente organizzato sono tutte fagocitate dall’affabulazione di Longo, che si abbandona, con un atteggiamento che fa pensare ad E. T. A. Hoffmann, il maestro di un fiabesco virato verso il perturbante, al gusto del particolare, preciso, minuzioso, iper-realistico, alla malia di immagini che, con la forza di metafore, seducono e sgomentano, all’esplorazione sottile eppure empatica dei più ambivalenti e sfuggenti stati d’animo, e infine, qualità che fa il grande narratore, alla seduzione della parola modulata. Con l’orgoglio di chi dà vita all’inanimato.

Non solo visioni del Domani però, di solito cupe e apocalittiche, ma la capacità di evocare fantasmi e suscitare moti introspettivi che toccano l’Uomo dov’è più fragile, con la delicatezza di una pietas voluta e consapevole: la “misericordiosa dolcezza” (Hotel Beijing, 1987-2017) di possibilità che si annunciano o di un futuro che si spegne, o lo “struggimento” per una “vita possibile, ipotetica” (Fantasma a Venezia, 1987-2018) nella quale il soggetto percepisce la presenza quasi tangibile di un “doppio” , un’emanazione di sé ma che ha scelto un’altra strada.  Come Rimbaud, Longo “fissa delle vertigini” e in esse, nell’armonia dell’Estetico perfettamente compiuto, trascende e sublima le inquietudini che tanto ragioni epocali quanto, supponiamo, motivazioni squisitamente autobiografiche impongono alla sua intelligenza d’artista.

Non ritornerò su un tema già toccato, ma la natura delle sette stanza in cui Longo prende dimora prima della parola fine, è già di per sé eloquente. Splendida manciata di cenere in cui si sposano i destini, prevedibili, della razza umana e la coscienza di sé di un uomo ormai quasi ottantenne, declinandosi entrambe queste suggestioni per splendide armoniche agitate dalla fantasia. «La morte: sempre più spesso, negli ultimi giorni, quel pensiero: una nota alta, lontana, vibrante, tenuta a lungo sul mondo: un annuncio, un grido o inseguimento. Sperò di rivedere Ybicuì, prima della sua partenza: per dove la partenza? Per Monaco e per Montevideo? […] Da quei placidi golfi spirava l’aria di giorni lontani e sereni, una promessa di felicità che gli era stata fatta all’inizio della vita e che ora veniva a scadenza; non sempre mantenuta, quella promessa, eppure fermamente creduta nel corso degli anni e decenni, sottoscritta da impari contraenti: e ora giunta al termine» (2009-2017, In Paraguay).

Ah, fra tante chiacchiere quasi dimenticavo: racconti splendidi da assaporare al limite dell’innamoramento, alimento perfetto per il piacere della lettura.

 

 

Giuseppe O. Longo

Sette stanze

Jouvance, 2020

  1. 240, euro 22,00