Lee Miller, surrealismo ma non solo

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La fotografa americana in mostra al Palazzo Pallavicini di Bologna

di Michele De Luca

 

Quando Condé Nast riconobbe il suo potenziale fascino da copertina patinata e decise di lanciarla su Vogue, Lee Miller (Poughkeepsie, N.Y. 1907 – Sussex, England, 1977) aveva solo diciannove anni. In breve tempo il suo volto divenne una presenza costante sulle riviste femminili, posando come modella per fotografi del calibro di Edward Steichen e Arnold Genthe (il fotografo famoso, oltre che per gli splendidi ritratti, per le immagini del terremoto di San Francisco del 1906).

Tuttavia, poco tempo dopo, Lee Miller decise di passare dall’altra parte dell’obiettivo. “Preferisco fare una foto, che essere una foto” affermava l’artista che, durante tutta la sua carriera, non si impose mai limiti, dedicandosi alla fotografia di moda, al ritratto, agli esperimenti surrealisti, al reportage di guerra.

Allo scopo di ripercorrere l’intera carriera di questa straordinaria fotografa americana, Palazzo Pallavicini ha presentato a Bologna, con il titoloSurrealist Lee Miller”, la prima retrospettiva italiana a lei dedicata, a cura di “ONO arte contemporanea”, se non si ricorda una lontana mostra nel 1993 al Palazzo Rucellai di Firenze, allora sede del Museo Alinari. Come allora, circa cento immagini, tratte dai negativi originali, ne fanno rivivere la trentennale carriera, iniziata nel 1929, con il trasferimento della fotografa a Parigi, poi in Egitto e nuovamente in Europa durante l’ultima guerra. La mostra ha il merito di riportare all’attenzione del pubblico una delle artiste-fotografe del secolo scorso più originali per la storia della fotografia, il cui lavoro tuttavia è ancora ben poco riconosciuto e valorizzato – quantomeno in Italia –, condividendo questa sorte con molte sue straordinarie colleghe, tra cui, per esempio, vale qui ricordare le americane Anne Brigman, Imogen Cunningham e Florence Henri, la francese Claude Cahun e la triestina Wanda Wulz.

Il percorso espositivo inizia da una data importante, il 1929, anno in cui la Miller, modella di Vogue, si trasferisce a Parigi con l’intenzione di diventare fotografa sotto l’egida dell’artista surrealista Man Ray, con cui instaura un sodalizio artistico che li porterà a realizzare numerosi progetti. è questo il periodo surrealista di Lee Miller, di cui rimangono splendidi scatti e ritratti “informali” di tanti artisti, da Cocteau a Picasso, da Magritte a Mirò, e che resterà indelebilmente per sempre in quella che si può chiamare la sua “cifra stilistica” identificativa del suo concepire e praticare la fotografia, in cui si condensa la sua originale riconoscibilità. Aspetto che viene particolarmente messo in luce dalla mostra, con immagini rappresentative della sua vivace curiosità sperimentale, dalle solarizzazioni ai corpi acefali (che ricordano quelli dei surrealisti della famosa rivista Minotaure), ma anche i suoi suggestivi scorci di una Parigi emarginata sul solco tracciato da Eugène Atget, molto apprezzato da Man Ray e chiamato dalla sua allieva Berenice Abbott il “Balzac della fotografia”. Come fa notare Valentina Tebala in una sua intervista a Claudia Stritof della ONO apparsa su Artribune, “se si guardano le foto dei periodi successivi – e su tutti quello egiziano – cambiano i soggetti, ma non il suo occhio, che ormai ha trovato una coerente cifra stilistica e concettuale, che le permette di ritrarre la bellezza inconsueta della quotidianità. Inoltre la ricercatezza del suo lessico fotografico si riflette anche nell’uso di sofisticati giochi linguistici presenti nelle didascalie da lei scritte”.

La Miller, dopo il periodo parigino fotografa per Vogue i bombardamenti di Londra. La vediamo quindi a Berlino: a lei si deve una particolare iconoclastia rispetto alla propaganda nazista, riuscendo ad offrire alla stampa illustrata uno sguardo decisamente spregiudicato, fino ad allora assolutamente proibito, nella sfera privata di Hitler. Le sue foto della serie “Hitleriana”, e in particolare il suo famoso ritratto nella vasca da bagno del Führer, dalla forte valenza simbolica, rappresentano visivamente la presa di possesso dell’ambito esistenziale più intimo del dittatore, riconducendolo così, con una irriverente demitizzazione della sua carismatica personalità, ad una misura di assoluta “normalità”.

Dal 1942, corrispondente accreditato presso l’esercito americano, con i suoi reportage davvero unici, diventa testimone del tragico epilogo del conflitto mondiale, fotografando in particolare i campi di concentramento di Dachau e di Buchenwald. Qui fotografò i sopravvissuti, le montagne di cadaveri e il personale di guardia. Da quello che le si presentò davanti al suo obiettivo restò traumatizzata per tutto il resto della sua vita: queste foto sconvolgenti, alcune delle quali assolutamente inedite, ci fanno sentire molto vicina questa grande fotografa che, dal mondo patinato di Vogue, si trovò impegnata a confrontarsi con la pagina più tragica, orribile e dolorosa della storia del secolo scorso. Durante la guerra, forse per la prima volta nella vita, Lee venne apprezzata non per il proprio aspetto fisico bensì per ciò che era capace di fare con la sua fotocamera. Fu sempre determinata a competere con gli uomini ad armi pari, talvolta rischiando guai, come quando infranse il divieto che riguardava le fotografe di avvicinarsi troppo al fronte: infrazione che le costò l’arresto per un breve periodo.

Finita la guerra, Miller iniziò a ritrarre bambini ricoverati in un ospedale di Vienna e la vita dei contadini nell’Ungheria; immortalò anche l’esecuzione del primo ministro László Bárdossy. Continuò quindi a lavorare per Vogue per due anni, occupandosi di moda e di celebrità. Non espose fotografie fino al 1955, anno in cui le sue opere vennero esibite nella mostra “The Family of Man” presso il Museum of Modern Art di New York.

 

Lee Miller, Self portrait © Lee Miller Archives England.