Povero cinema italiano

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Michael Cimino e Abbas Kiarostami

di Gianfranco Sodomaco

 

Ho promesso, sull’ultimo numero di Ponte rosso, di parlare di due grandi registi di recente scomparsi: Michael Cimino (U.S.A.) e Abbas Kiarostami (Iran). Manterrò la promessa, ma prima lasciatemi dire qualche cosa di casa nostra, del cinema italiano, della sua situazione generale, visto che l’ANICA, Associazione Nazionale Industrie Cinematografiche Audiovisive, e il Mibact, Ministero dei Beni e Attività Culturali e Turismo, hanno pubblicato la situazione economica (ma non solo) per l’anno 2015. Questi i dati, per me, più importanti. Dal punto di vista dei finanziamenti sia pubblici che privati, essi non vanno ai film di interesse culturale, 65 film su un totale di 182 (venti in meno rispetto al 2014), genericamente inteso. La quota di mercato del cinema italiano è stato del 20% (record negativo degli ultimi dieci anni), il che significa che l’80% restante è stato assorbito principalmente dal mercato statunitense. Oltre la metà dei film italiani sono prodotti con basso budget (meno di un milione di Euro): questo spiega anche perché, poi, molti film vengono visti pochissimo, non godendo di promozione, pubblicità ecc. La RAI, la televisione pubblica, ha programmato in prima serata 33 film e poco più della metà avevano meno di cinque anni. Conosciamo più o meno tutti i problemi che il cinema ha rispetto al numero e alla tipologia delle sale, alla concorrenza televisiva, moltiplicatasi negli ultimi anni, rispetto ai contenuti, come abbiamo accennato, alla concorrenza straniera ecc., ma sappiamo anche che, tranne rare eccezioni, i registi più giovani, che pure ci sono, puntano, continuano a puntare, sulla ‘commedia all’italiana’ e sue varianti, che alcuni registi affermati (Sorrentino, G. Muccino,Virzì a breve ecc.) preferiscono ormai girare i loro film all’estero non solo per ragioni economiche: che non v’è uno straccio di politica culturale cinematografica da parte dello Stato, se escludiamo ciò che RaiCinema, indirettamente, riesce a proporre o bene o male. Mi piace ricordare due eccezioni: Checco Zalone, comico sui generis, interprete di Quo vado, record di incassi italiano 2015, quasi 70 milioni di Euro, per un film di ampio respiro che spesso ti fa ridere a denti stretti sul problema del ‘posto fisso’ (regia di Gennaro Nunziante); Non essere cattivo (ancora su una borgata sottoproletaria romana ‘pasoliniana’), di Claudio Calegari, regista morto poco prima dell’uscita del film e che ha vinto recentemente, dopo aver partecipato all’Oscar quale migliore film straniero, il Premio Internazionale Amidei (Gorizia) per la migliore sceneggiatura.

Ma passiamo ai due maestri della cinematografia mondiale, ai quali il il Festival di Locarno (3/13 agosto) ha dedicato la manifestazione. Partendo da Michael Cimino. Cimino, nato nel 1939 a New York da una famiglia borghese di origini italiane, sin da giovane studia architettura, pittura, musica e letteratura. Questo spiega la sua cultura, e il suo cinema, multiforme, eclettico. Dal ’62 in poi, si arruola nell’esercito per sei mesi, inizia a girare i primi documentari e spot pubblicitari e a frequentare il famoso Actors Studio con Al Pacino, Dustin Hoffman e Meryl Streep. È un inizio pieno di potenzialità, al punto che dal ’71 firma le prime sceneggiature e nel ’74 gira il suo primo film, coprodotto con Clint Eastwood: Una calibro 20 per lo specialista. Un successo! Quattro anni dopo, nel ’78, col suo secondo film, Il cacciatore, entra nella storia del cinema vincendo cinque Oscar, tra cui quelli per il miglior film e migliore regia. L’anno dopo, un altro capolavoro: I cancelli del cielo, film controverso anche perché, rivelandosi un flop dal punto di vista degli incassi, manda in fallimento la casa di produzione United Artists. Riuscirà a girare, ormai tra alti e bassi, altri cinque film (tra cui L’anno del dragone) ma senza più ripetere i due ‘gioielli’ degli anni ’70.

Perché lo vogliamo ricordare? Perché con Il cacciatore, a guerra finita, nessun altro ha sviscerato il problema ‘Vietnam’ come Cimino, partendo dalla descrizione di una comunità di emigranti russi in America, passando attraverso la drammatica esperienza bellica di tre soldati oriundi che fanno della propria amicizia il valore imprescindibile, fino alle ultime conseguenze. Più che un film bellico classico (del tipo Apocalypse Now di Coppola), l’epopea di una sconfitta e di una generazione che cercherà, dopo la commozione del lutto, la speranza di una rinascita. L’ultima scena vede tutta la comunità che canta ‘God bless America’. Indimenticabile, un’autentica lezione di storia. Perché con i Cancelli del cielo si confronta apparentemente con il genere western; in realtà uno scontro di classe tra ricchi padroni del bestiame e poveri, disadattati, contadini. Ne esce un maestoso affresco che, ancora una volta, celebra e distrugge uno dei miti cinematografici yankee. Dopo aver speso 44 milioni di dollari e incassato uno e mezzo, Hollywood lo ha punito non solo per motivi economici ma anche per evidenti motivi ideologici, fino ad ignorarlo in occasione della sua morte.

Da Michael ad Abbas.

Abbas Kiarostami nasce a Teheran nel 1940 e dopo una laurea a diciott’anni in Belle Arti

e aver fatto l’illustratore di libri per bambini (qualcosa di analogo a Cimino) agli inizi degli anni ’60 gira 150 spot televisivi sempre con una preferenza per il mondo infantile. Superata la trentina, nel ’74, firma il suo primo film, non senza problemi con il nuovo regime komeinista, ispirato decisamente al Neorealismo italiano. Il primo lungometraggio è Il viaggiatore, storia di un adolescente che vuole a tutti i costi vedere la partita della nazionale di calcio iraniana. Seguono cinque film fino a Il sapore della ciliegia (1997), che vince la Palma d’Oro a Cannes. Poi altri sette film tra cui tanti documentari. Da ricordare, tra questi, Tickets (2005), girato con Ermanno Olmi e Ken Loach e Copia conforme (2010) con Juliette Binoche. Da ricordare che un regista come Jean Luc Godard (Kiarostami a un certo punto si è trasferito in Francia, ma mai abbandonando l’Iran) ha dichiarato: “Il cinema inizia con D.W. Griffith e finisce con Abbas Kiarostami. E Scorsese: “Kiarostami è il modello più alto di regista cinematografico”. Il nostro Nanni Moretti, da sempre suo estimatore, volle proiettare, al suo Nuovo Sacher romano, il corto “Il giorno della prima di Close Up”, un’amara e ironica riflessione sulle difficoltà del cinema d’autore nell’avere un riscontro di pubblico, problema con cui anche Kiarostami ebbe a che fare. Due parole sulla sua poetica. Anche per Kiarostami, due capolavori: a Il sapore della ciliegia e Copia conforme. Nel primo Badiei, un uomo di mezza età, attraversa con la macchina la desolata periferia di Teheran cercando qualcuno che lo aiuti a suicidarsi. Finalmente trova l’ imbalsamatore di un museo, Bagheri, che accetta a patto che, davanti alla fossa, sia realmente morto. Qual è l’idea originale del film? A Kiarostami non interessa le cause dell’ eventuale suicidio ma le reazioni del prossimo che, ad un certo punto, con una specie di fermo-immagine, si identifica col pubblico e il pubblico diventa il protagonista della storia, meglio, ciò che noi singoli possiamo pensare sulla morte. L’operazione ha anche il significato che il cinema deve fermarsi davanti al mistero dell’indicibile, della vita e della morte. È stato detto un film ‘rosselliniano’, l’apoteosi del neorealismo. E la reazione del pubblico non può che essere un punto di domanda: anticonvenzionale, anticonformista.

La copia conforme. Una coproduzione franco-italo-iraniana (2010). Girato in Toscana con protagonisti due personaggi che si occupano d’arte, si conoscono e lo spettatore scoprirà che sono stati amici, amanti e, forse, sposi in crisi. Ancora una volta un film sulla verità del cinema, una ‘copia conforme’ per quel film che avrebbe voluto girare in Iran. Juliette Binoche premiata a Cannes quale migliore attrice, il coproduttore (‘morettiano’) Angelo Barbagallo, nei panni di un traduttore di libri, non riuscirà ad attirare l’attenzione del pubblico italiano su un altro gioiello di Kiarostami. Film pressoché sconosciuto in Italia ma visto alla televisione.