Cineasti ebrei approdati a Hollywood

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Rifugiati negli Stati Uniti a causa delle persecuzioni naziste furono molti gli ebrei che fecero la storia del Cinema.

di Pierpaolo De Pazzi

 

Francesco Carbone ha scritto un gran libro e leggendolo sembra di infervorarmi a discutere con amici appassionati di cinema, con il Mereghetti o con il Morandini in mano. Perché il suo è un libro dialogante, che non si limita a offrire suggestive e illuminanti connessioni tra Storia, Arte, Cinema, Filosofia, Costume… ma che apre un colloquio col lettore, invitandolo a a seguire un flusso di lettura non lineare, ma piuttosto ipertestuale, srotolando un proprio filo tra testo e note, tra schede di approfondimento e bibliografia, o magari cercando un film su Youtube o una foto su Google.

Quasi fortuitamente il libro è arrivato nelle mie mani, regalo di Walter Chiereghin, che mi fa: potresti scriverne una recensione, dato che sei appassionato di cinema – è di un autore triestino che non conosco.

Mi informo, allora: «Francesco Carbone vive a Trieste. Ha scritto Da Hitler a Casablanca via Hollywood. Cineasti ebrei in fuga dal nazismo e l’operetta morale I privilegi dell’ignoranza (2013)». È autore anche di testi teatrali.

Poi vengo a sapere che il suo ultimo libro, Chiari pensieri d’amore (Roma: L’erudita, 2017), verrà presentato a Trieste dal c(h)iarissimo professor Marzio Porro, e scopro che fu docente anche di Carbone, oltre che mio. Insomma, la storia del mio incontro con questo libro è una storia di occasioni, agnizioni ed amicizia, un colpo di fortuna: dovevo premetterlo, perché Da Hitler a Casablanca via Hollywood mi è piaciuto moltissimo.

Ne dice l’editore:

«1933: a poche settimane dalla presa di potere nazista Goebbels fece licenziare tutti i numerosi cineasti ebrei che lavoravano all’UFA, la più grande casa produttrice cinematografica europea. Tra quanti riuscirono a raggiungere gli Stati Uniti e ad affermarsi ricordiamo registi, attori e tecnici come Billy Wilder, Otto Preminger, Fred Zinnemann, Edgar G. Ulmer, Fritz Lang, Peter Lorre, Karl Freund… con loro però migliaia di altri tecnici e artisti trovarono possibilità di lavoro talmente precarie da stroncarne spesso la carriera».

Lo sguardo dell’autore non si limita a un’analisi soltanto filmica, estetica o storica, ma va oltre lo schermo, ed è uno sguardo etico e necessario, pieno di umana pietà per chi resta travolto nel gorgo della storia, allora come oggi.

«About suffering they were never wrong, / The Old Masters: how well they understood / its human position; how it takes place / while someone else is eating or opening a window or just walking dully along». Carbone è ispirato nella sua ricerca da questa illuminante citazione di Wystan Hugh Auden,da Musée des Beaux Arts del 1939. Come può la vita continuare indifferente, addirittura al centro della scena, mentre il dolore, l’ingiustizia, perfino il martirio sono relegati ai margini?

Com’è possibile, cioè, che mentre in Europa infuria il delirio nazista, a Hollywood, e proprio per mano di alcuni cineasti ebrei profughi, si girino alcune delle commedie più brillanti della storia del Cinema, che continueranno a «contagiare di felicità» il mondo anche dopo la Shoah? È forse una vittoria della bellezza sullo squallore hitleriano?

Quanto è teso l’arco della coscienza di Billy Wilder, tra il dolore senza rimedio per la perdita della madre e di tanti familiari nei campi di sterminio, e l’umorismo perfetto di A qualcuno piace caldo (che per altro contiene in sé «una scheggia dell’allegria scollacciata di Weimar», nota Carbone)?

Due furono le ondate di immigrazione di artisti tedeschi in America. Per primi arrivarono negli anni ‘20 i grandi attori e registi invitati da Hollywood per impoverire la concorrente filmografia europea. Arrivano Lubitsch, Murnau, Sternberg, Dietrich, William Wyler (Wilhelm Weiller). Ma dopo il 1933 cominciano ad arrivare i profughi ebrei, quelli che nessuno ha chiamato, i rifugiati, i sans papier dello spettacolo. Ricordava Billy Wilder: io mi trasferii qui solo per non finire in un forno.

Arrivano, non senza rocamboleschi espedienti, in un’America percorsa da sentimenti razzisti e anche antisemiti, in una Hollywood che era una Mecca sotto assedio, dove gli ebrei pur ricoprendo posizioni di potere negli studios, non avevano interesse a palesare la loro presenza. Fu così che inizialmente prevalse la minimizzazione di quanto succedeva in Germania, se non addirittura la negazione. C’è chi fa di tutto per ottenere il visto della censura tedesca, per poter vendere i film in Germania.

Ecco che i rifugiati, per integrarsi quanto prima in America, rinunciano a tutta la loro cultura, a partire dalla lingua e dal nome, e ripartono letteralmente da zero. Fino al 1940 le parti per personaggi ebrei non esistono nelle sceneggiature. Per gli attori emigrati, che parlano un inglese più o meno pesantemente viziato dal loro accento d’origine, sarà una vita dura; le scritture mancano o condannano a ruoli secondari ed esotici.

Per i registi europei (ebrei) lavorare a Hollywood fu un po’ più facile: si poteva ben dirigere un film anche con un inglese non perfetto, ma bisognava rinunciare alle aspirazioni artistiche, o inseguirle sottotraccia, accettando tutte le ferree regole del sistema. La produzione comanda, stanzia il budget, decide quanti film fare e di quale genere, senza spazio per improvvisazioni artistiche. Stop. Essere antinazisti non si può.

Le occasioni di lavoro per gli attori di madrelingua tedesca arriveranno in particolare tra il ‘41 e il ‘45, quando, con l’America ormai in guerra, il Cinema diventa una formidabile arma di propaganda. Smessi i panni di caratteristi comici, quegli attori, ebrei, si trovano a dover interpretare con la morte nel cuore i “cattivi” tedeschi: quelli che stavano massacrando i loro familiari rimasti in Europa.

Finita la guerra, viene meno la necessità della propaganda, il lavoro scarseggia e molti tornano nel vecchio continente.

È impossibile seguire tutte le tracce della loro permanenza in America, i mille fili di ragnatela delle loro vite, che si annodano in centinaia di film a cui partecipano. Come emblema Carbone sceglie Casablanca, il film in cui i rifugiati hanno composto la maggior parte del cast, «cercando nella sua mònade il riflesso di tutto il mondo circostante».

In Casablanca evidenzia i contributi di tutti quelli che ci lavorarono, dalla prima all’ultima comparsa. Sono oltre 70 i rifugiati europei che vi recitano (nella parte di se stessi, in quanto tali) e sono in gran parte ebrei. Sono ebrei polacchi i 4 fratelli Warner, i produttori, 2 sceneggiatori su 3, il regista Michael Curtiz (ungherese). Eppure, per tutto il film, di rifugiati ebrei non si parla, anche se la Warner fu l’unica delle major a prendere posizione aperta contro il nazifascismo, da subito, ma senza riferimento alla questione ebraica.

L’intento «manzoniano» (e quindi etico) di Carbone è quello di mostrare «l’intreccio inestricabile fra i destini individuali e la storia senza volto – e senza provvidenzialità – che travolse e distrusse, tra il 1933 e il 1945, la vita di milioni di uomini». Sono esemplari le vicende dei rifugiati coinvolti in Casablanca, fiori di talento cui la storia impedì di sbocciare compiutamente, figure ormai quasi dimenticate, come geni rimasti chiusi dentro la propria lampada, che Carbone tenta di rievocare, perché le loro vicende testimonino di uno dei periodi più drammatici dell’umanità.

Di fronte a un intento di questo tipo, che mi fa pensare all’imperativo etico che spinse alla scrittura coloro che sopravvissero ai campi nazisti, restano sullo sfondo possibili osservazioni al libro, molto carico di informazioni, per facilitarne la lettura. Si perdona facilmente ad un autore il suo eccesso di generosità, dato che il materiale che Carbone mette assieme è veramente sconfinato.

Preziosi sono i libri che offrono perle tanto nelle note come nel testo!

 

 

Copertina:

 

Francesco Carbone

Da Hitler a Casablanca

via Hollywood

EUT, Trieste 2011

  1. 305 euro 14,00