Il suo nome era Arrigo

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di Michele Diego

 

Un fortunato racconto di Edgar Allan Poe si apre con una lunga digressione circa la superiorità del gioco della dama su quello degli scacchi. La dama, sostiene Poe, è più immediata e richiede meno allenamento rispetto agli scacchi, e quindi favorisce il genio intuitivo del giocatore piuttosto che le ore spese a esercitarsi. Certo è una teoria che trova pochi adepti, eppure io mi vanto di conoscerne uno, se non di persona, almeno attraverso ciò che ha lasciato dopo la sua morte.

Il suo nome è Arrigo Cavalieri: nato nel ’18 a Roma, ma triestino di origini e di scelte di vita, avendo basato i suoi affetti e la sua professione a Trieste, dove è vissuto fino alla morte nel 2001; avvocato cresciuto nella scuola di Calamandrei e socio fondatore di diversi studi legali; scrittore finalista al Campiello col romanzo Vivere a Babele e poi contendente allo Strega col romanzo Il suo nome era Francesca; collezionista di grandi quadri (una gigantesca tela attende ancora il suo nuovo destino nei locali della casa d’aste Stadion) e di grandi artisti (Carrà, Viani e de Pisis per citarne alcuni arcinoti); presidente dell’Associazione Italo Americana di Trieste per più di un quarto di secolo; fiero damista; gentiluomo eclettico ed elegantemente eccentrico. Un personaggio appartenente a quella rara cerchia di uomini le cui opere non sono che un corollario naturale e subalterno della loro personalità. E anche se per uomini del genere l’opera più importante mai realizzata coincide con la vita stessa e quindi si esaurisce nel momento della morte, a noi rimane la memoria dei frammenti delle loro azioni e da queste possiamo immaginare il mosaico completo della loro esistenza.

Alcune delle sue gesta mi sono state raccontate in maniera quasi diretta, vale a dire dai suoi famigliari. E so quindi dei meriti ottenuti per le attività antifasciste, dopo che, da ebreo, durante il ventennio era stato discriminato e allontanato da ogni attività lavorativa. So del suo rapporto stravagante con le auto, che talvolta d’inverno usava tenere col motore acceso anche di notte, nel garage, in modo tale che fossero già calde la mattina seguente. O ancora so della sua conoscenza con grandi poeti come Montale, Saba e Quasimodo, di cui oggi resta traccia nelle dediche a lui scritte all’interno delle loro raccolte di poesie.

Ma nessuna testimonianza può essere più diretta degli scritti dello stesso Cavalieri, in cui traspare il suo modo di vedere Trieste e il mondo.

Nel suo romanzo più intenso, Il vuoto, di ispirazione esistenzialista, Cavalieri descrive la vita e gli affanni di una famiglia della borghesia triestina, al cui vertice si trova Bruno Giampieri, professore e avvocato in cui non è difficile scorgere l’alter ego di Cavalieri stesso. Un romanzo moraviano, italianissimo, carico delle contraddizioni di un’epoca in cui l’etichetta e le formalità andavano a braccetto con la disillusione e il vizio; un romanzo il cui stile si è impregnato del fumo di sigaretta che Cavalieri teneva tra le labbra mentre dettava la storia alla segretaria. E se nel romanzo troviamo Giampieri all’apice del nucleo famigliare, al grado più basso c’è Maria, unica femmina di tre figli, con una sindrome che la isola dal mondo, incapace di parlare, forse anche di capire che cosa le accade attorno; una figura che incarna sul piano corporeo le crisi dei personaggi esistenzialisti. Eppure padre e figlia sono legati da filo indistricabile. Anche Giampieri avverte infatti l’impossibilità di afferrare il senso di una società di cui è allo stesso tempo artefice e vittima, in cui è sì protagonista, ma da cui si vede irrimediabilmente distaccato. E alla fine a liberarlo sarà proprio Maria, sparandogli con la rivoltella, in uno dei colpi di pistola più intensi che io abbia avuto il piacere di leggere. «Finalmente!» esclama Giampieri subito prima di morire, e anche se non credo che un uomo tanto vitale come Cavalieri potesse davvero desiderare la morte, il fatto che abbia scelto di far finire così il suo protagonista ci ricorda che, al di là dei successi professionali, delle collezioni d’arte, della grandezza delle nostre azioni, ognuno di noi si trova faccia a faccia con il vuoto dell’esistenza.