Gange, fratello fiume

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Le fotografie di Giulio di Sturco in mostra all’Università Bocconi di Milano

di Michele De Luca

 

«Sono nato in una famiglia di fotografi: mio bisnonno era fotografo, mio nonno era fotografo, mio padre è fotografo. La fotografia è stata lì da sempre, come fosse la cosa più naturale al mondo. Così alle feste e ai matrimoni prendevo la macchina e scattavo delle foto. Sono cresciuto in camera oscura, con mio padre che sviluppava le foto scattate al matrimonio della domenica prima, e io lì che aspettavo che la luce rossa si spegnesse per poter uscire e andare a tirare due calci a un pallone». Così ricorda i suoi esordi paesani, in una vera e propria “dinastia” di fotografi che hanno saputo raccogliere ed archiviare la memoria visiva di una piccola comunità, altrimenti destinata a non lasciare alcuna traccia, Giulio Di Sturco, affermato ed apprezzato fotografo a livello internazionale (riconosciuto con  diversi premi di grande prestigio, tra i quali, fin dal 2009, il World Press Photo e il Sony World Photography Awards).

Nato nel 1979 a Roccasecca (città natale di San Tommaso), in provincia di Frosinone, studia fotografia all’Istituto Europeo di Design e Arti Visive a Roma e, dopo la laurea, si trasferisce in Canada, dove realizza un reportage su Toronto, e successivamente si sposta a New York. Attualmente vive tra Londra e Parigi dopo aver vissuto lunghi anni a Mumbai (nota fino al 1995 come Bombay, capitale dello stato del Maharashtra, in India). Dalle scoscese ed anguste sponde del fiume Melfa, che scende nelle forre del Tracciolino, una delle vie più appartate e affascinanti del basso Lazio, dopo esperienze negli Stati Uniti e nel Canada, Di Sturco approdò – è stata una scelta “di vita”, oltre che semplicemente professionale – sulle larghe rive del Gange, che è diventato per lui il “Fratello fiume”, che ora racconta nella bella mostra “Ganga ma” (Madre Gange) presentata all’Università Bocconi di Milano da MIA Fair in collaborazione con la Podbielski Comptemporary Gallery di Berlino.

Il fiume come metafora della vita richiama alla memoria lontani e diversi approdi di grandi artisti, che vanno da Smetana a Jean Renoir (che con il suo film Il fiume narrava nel 1951, in un’India in gran parte perduta, la vita semplice degli indiani nella loro quotidianità lungo le rive del Gange), da Bruce Springsteen al guru Osho. Le foto di Di Sturco, frutto di una attenta e appassionata ricerca fotografica (operata “dal di dentro”, e non da freddo e distaccato reporter) sul contesto umano e naturale del Gange (ed affluenti) fanno emergere la sua capacità di cogliere l’umanità che popola un luogo (reale e mitico allo stesso tempo) dove la vita e la morte convivono, in una sorta di secolare “fermo immagine” nello scorrere ineluttabile di un’acqua che purifica e rigenera; egli sa tradurre in immagini di forte suggestione la sua “idea” del grande e antico paese dove ha scelto di vivere ed operare: «L’India è il luogo dove gioia e disperazione, bellezza e squallore si fondono».

L’immane lavoro Di Sturco segue la corrente del Gange per  2.500 chilometri, dalle sue sorgenti localizzate sul ghiacciaio di Gangotri nello stato indiano dell’Uttarakhand

alle falde dell’Himalaya al delta nella Baia di Bengal in Bangladesh, raccontando come l’immenso territorio bagnato dalle sue acque, una delle regioni più densamente popolate del pianeta, si trovi sospeso tra la crisi umanitaria e il disastro ecologico. Il grande fiume, per il fotografo, è considerato come un esempio fortemente emblematico della contraddizione, tuttora  irrisolta, tra uomo e ambiente, poiché è un fiume intimamente connesso, si direbbe in rapporto simbiotico, con ogni aspetto, sia sul piano fisico che spirituale della storia, della cultura, della religione (come sappiamo, secondo gli indù il fiume Gange è sacro) e della vita indiana, rappresentando, prima di tutto, una fonte essenziale di sussistenza per milioni di persone che vivono lungo le sue rive, fornendo cibo a oltre un terzo della popolazione indiana. Inoltre, il suo ecosistema è caratterizzato da una eccezionale eterogeneità di specie animali e vegetali, che purtroppo però stanno scomparendo a causa dei rifiuti tossici smaltiti ogni giorno nelle sue acque.

Le fotografie di Ganga Ma spaziano dalla banalità del quotidiano a una condizione quasi surreale. Quasi a evidenziare l’infermità causata dall’uomo al corpo del fiume, Di Sturco ha adottato una strategia estetica singolare, presentando immagini che a una prima occhiata appaiono piacevoli e poetiche, ma che poi rivelano la loro vera natura. Attraverso atmosfera, colore e composizione, le immagini di Giulio ci mostrano ciò che a prima vista non si riesce a percepire; ci trasmettono una sensazione, rivelando quei momenti che normalmente passano inosservati, eppure sono carichi di significato. Nel documentare la vita lungo il fiume, Giulio è stato testimone degli effetti devastanti del cambiamento climatico, dell’industrializzazione e dell’urbanizzazione. Il Gange, al centro della vita spirituale indiana e alla stesso tempo sull’orlo di un disastro ecologico, è secondo Di Sturco la metafora più potente del nostro approccio conflittuale con il mondo naturale che ci circonda.

Con Ganga Ma, il fotografo, come ha scritto Eimar Martin che ha curato la prima monografia a lui dedicata pubblicata nel 2019 da GOST Books, «fornisce un ritratto poetico e inquietante del fiume, da vicino, attraverso immagini che si muovono avanti e indietro tra il distacco osservativo della fotografia documentaria e una risposta pittorica estetica alle condizioni ecologiche e atmosferiche del Gange. La scelta del fiume più sacro e venerato dell’India come soggetto di questo progetto a lungo termine ci impone in definitiva di ripensare profondamente la nostra complessa interconnessione con l’ambiente e il modo in cui immaginiamo il nostro posto e la nostra azione nel mondo. Mentre il progetto di carattere documentario mirava a testimoniare un disastro ecologico in atto, Di Sturco ha progressivamente creato un linguaggio visivo in grado di evocare un futuro prossimo mostrandoci i suoi semi nel presente e nel processo permettendoci di percepire un mondo tossico e post-apocalittico». Nelle sue immagini – bellissime – si respira un’atmosfera sospesa, si coglie il tono onirico con cui egli ha inteso sottolineare ulteriormente la dimensione simbolica del fiume. Con esiti di grande suggestione visiva e di momenti di alta poesia.

 

 

Farakka

India, 2013

© Podbielski Comptemporary

Gallery, Berlin