Libri che parlano al cuore

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Insospettabili contiguità tra i romanzi di Susanna Tamaro e Sandro Veronesi

di Gabriella Ziani

 

Lui naviga sui traghetti, ha frequentato il Nautico a Trieste di nascosto dal padre che lo voleva avvocato a Gorizia per tradizione di famiglia. Lei studia Lingue orientali a Venezia, passa dei periodi in Cina, crede in Mao e s’infiamma per un compagno di barricate. S’incontrano per caso, lui stregato (lascia la solida fidanzata alla vigilia delle nozze), lei sfuggente. Lei tornerà a cercarlo. L’acqua alta veneziana li farà convergere nel mini-appartamento di lui. Andranno a vivere al Lido, anche con la figlia che la ragazza ha in precedenza avuto in un incontro più che casuale. Passano così gli anni. Si trasferiscono infine sull’”isola” (non nominata ma forse Sardegna visto che la Corsica è a tiro di visuale). Hanno un figlio, che subito si ammala e muore. La figlia, ormai studentessa universitaria, deraglia fra fughe definitive e droghe. Lei, infine, muore di colpo come sua madre. Lascia una lettera in cui parla di sé. Che lui trova per caso. E comincia a raccontare a ritroso, avanti e indietro nel tempo.

È il trentaquattresimo titolo, per Susanna Tamaro, e anche stavolta è di sbalorditiva semplicità, Una grande storia d’amore, che riecheggia altre parole-chiave della scrittrice triestina “milionaria” per numero di copie vendute in Italia e nel mondo, premio San Giusto d’oro nel 2013: se non è amore, è “cuore” (Va’ dove ti porta il cuore, Il castello dei sogni. Storie che parlano al cuore, Un cuore pensante, Cuore di ciccia), oppure “sguardo” (Il tuo sguardo illumina il mondo, Alzare lo sguardo), oppure “angelo” (Tobia e l’angelo, Ogni angelo è tremendo), mentre altre volte prevale anche in copertina il suo esistenziale attaccamento alla natura (Più fuoco, più vento, Il seme, Baita dei pini, Il grande albero). E un’altra volta la Tamaro sceglie di replicare lo stile narrativo inaugurato con il suo storico successo, Va’ dove ti porta il cuore, che poggiava su un monologo a distanza della nonna rivolta alla nipote, e già usato anche in Il tuo sguardo illumina il mondo (lettera all’amico poeta Pierluigi Cappello da poco scomparso): l’azione di nuovo non è radicata in un tempo presente che drammaturgicamente procede verso il suo epilogo, ma è riferita nel ricordo. Andrea, vedovo di Edith, rievoca la loro storia di coppia, e il ricordare con rimpianto implica una tonalità sommessa, dolcificata, triste e pacata. È come se Tamaro si sentisse al sicuro non là dove le cose accadono, turbinose e spinose, ma a un po’ di metri di distanza, protetta da un filtro, da un sipario traslucido dietro il quale tutti si muovono più lenti e meditativi, con colori più sfumati, senza precipizi e tempestose sorprese: qui non è solo il narratore – onnisciente per natura rispetto alla trama – a conoscere l’intero svolgimento, ma è anche il personaggio stesso che “già sa”, perché non vive ma ha già vissuto. Per i lettori è come un racconto di terza mano. Non per questo meno ricco di fatti e dettagli, in un andare che ha qualcosa di fluviale nella sua tutto sommato delicata banalità.

Inutile chiedersi se è davvero “una grande storia d’amore”, o se “storia di un grande amore” sarebbe stato equivalente: qual è veramente il grande amore? Il più quieto, il più tormentoso, il più lungo, il più paziente, il più generoso, il più creativo? Usciti da queste pagine, scompare del tutto l’ipotesi della versione passionale, il racconto è (potremmo dire: per fortuna, visti gli esiti noiosissimi di certe narrative) dignitosamente asessuato. Lo spiega Andrea, con espressioni non tanto sofisticate: «Tra noi, anni prima, era divampato il fuoco della passione. Mentre ardeva, non eravamo stati sfiorati dal sospetto che dopo l’ebbrezza sarebbe arrivata la distruzione. Eppure anche un bambino sa che, quando la legna finisce, il fuoco si spegne, come sa che, se nessuno lo custodisce, una scintilla può fuggire dal camino e trasformarsi in fiamma e divorare in breve l’intera struttura di una casa». Edith rifiuta, anche rabbiosamente, le “gabbie” del matrimonio, e quel matrimonio si farà solo sul letto di morte, con una funerea coincidenza tra un atto di inizio e un momento di fine. «Se fossimo caduti entrambi in quella trappola – aveva scritto Edith da giovane -, che cosa avremmo fatto? Saremmo finiti a prenderci a morsi come i topi rinchiusi in una gabbia troppo stretta». Lei si dichiara una bestia impaurita, che fugge anziché attaccare. Il punto focale, lo sfondo che Tamaro dà a queste due vite vicine ma lontane è invece un senso cosmico della natura: vulcani, stratosfera, rami spogli e gemme, fiori, oceani, mari e onde, una miriade di creature di mare, di terra e di aria, a cominciare dalle complesse arnie delle api.

È strano infine che a pochissima distanza di tempo due libri, a firma di autori così conclamati come Susanna Tamaro e Sandro Veronesi (premio Strega 2020 con Il colibrì), presentino strutture e dettagli significativamente simili. Entrambi sono delle biografie. Entrambi hanno perno su lutti a ripetizione. Tamaro: il padre di Edith è morto in un incidente, la madre di Andrea si spegne in quattro mesi di malattia, il padre se ne va in una notte anni dopo, la madre di Edith ha un ictus fatale, il figlio della coppia nasce con una malattia genetica incurabile e muore neonato. Veronesi: la sorella si è suicidata da giovane, padre e madre muoiono quasi assieme di lungamente descritta malattia, la figlia del protagonista muore in un incidente di montagna e lui stesso alla fine è morente. Non mancano relazioni su ospedali, farmaci, funerali.

Altre coincidenze riguardano i “nati per caso”, con padri che volutamente restano ignoti, e che sono di altra pelle: nulla di consapevole e condiviso in questi che sembrano, ma non sono, segni di apertura alle eguaglianze politicamente corrette. Più errori che amori, insomma. In Veronesi la figlia del protagonista – che intanto è altrettanto deragliata per conto suo – torna un bel dì con una bimba dal nome giapponese e tratti somatici molto misti (“è morettina, cioè, insomma, mulatta, ha i lineamenti giapponesi, i capelli ricci e gli occhi azzurri”) e mai si svelerà il nome del padre. Da padre le farà il nonno. In Tamaro, la ragazza Edith, di ritorno da una sosta a Hong Kong, finisce soggiogata da un ricco quarantenne di madre cinese e padre tedesco, da cui nascerà Amy, che solo da grande andrà in cerca delle proprie radici biologiche e verrà rifiutata. E che a propria volta tornerà con un figlio di nessuno, quando Andrea, fino ad allora un surrogato di padre, lo “ziopapi”, l’avrà rintracciata dopo anni di assenza. Un’amaca (Veronesi) e un’altalena (Tamaro) sono gli oggetti-simbolo nei dintorni ambientali di questi bambini, in romanzi che inoltre usano in coppia l’escamotage degli inserti epistolari e talora il balloon dei fumetti per certi botta e risposta via e-mail.

E in entrambi si affastellano mille trame e grane, disgrazie, rapporti difficili, normali, qualche sbaglio, il tira a campare, l’andare e tornare, pensare, pentirsi, dolersi, scriversi, fuggirsi e confessarsi, rimpiangere, cercare e lasciare il lavoro, cambiare casa, far figli e perderli, e tuttavia niente di veramente grande accade, in verità, tutto scorre malamente e come può: siamo rappresentati da un alveare (non un formicaio), ma per una breve vita, che poi finisce su se stessa. I lettori oggi amano molto vedersi in uno specchio specialmente delittuoso (gialli, gialli… ), ma sembra che l’alternativa sia un format da sit-com familiare, dove il “piccolo” Colibrì e il “grande” Amore hanno in fondo una statura solo media, una vocazione rassicurante. Come recita la megapubblicità che lancia Tamaro: un libro che parla al cuore. C’è il segno della coerenza.

 

 

Susanna Tamaro

Una grande storia d’amore

Solferino, Milano 2020

  1. 285, euro 17,00