Il criceto nella ruota

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In un breve saggio pubblicato nell’ultimo numero di MicroMega, Tomaso Montanari e Francesco Pallante esordiscono con un’immagine che giudico felice e calzante: «Trent’anni di culto del maggioritario hanno ridotto gli orizzonti del dibattito pubblico sulla democrazia a quelli di un criceto che corre sulla ruota fissata alla gabbia: per quanto possa agitarsi, non avanza di un millimetro». Non è l’unica cosa che condivido del loro articolo, anzi, ma l’immagine del criceto che corre restando al punto di partenza la trovo congrua e applicabile, semmai, anche a diversi altri ambiti della nostra vita associata.

Traducendo dalla metafora, ciò che impedisce al criceto di avanzare nello spazio è la ruota, che girando su se stessa vanifica ogni sforzo dell’animale, esattamente come, nel dibattito pubblico sulla nostra democrazia, il sistema maggioritario e l’elezione diretta di alcuni amministratori (a partire dai sindaci, in forza della legge n. 81 del 1993) hanno avuto e continuano ad avere effetti collaterali fuorvianti e bizzarri rispetto all’obbiettivo che s’intendeva prioritariamente conseguire, che è quello di una maggiore governabilità e stabilità del sistema. Al raggiungimento di quello scopo, tuttavia, si sono sacrificati alcuni aspetti essenziali della convivenza democratica; e in primo luogo si è affermato un principio, non iscritto tra quelli della nostra Costituzione, secondo cui il sindaco, eletto direttamente dai cittadini secondo uno schema sostanzialmente presidenzialista, è legittimato a decidere secondo il suo arbitrio, svuotando praticamente l’assemblea elettiva di ogni sostanziale potere, nominando e revocando a proprio piacimento gli assessori e relegando infine la minoranze uscite dalle urne a un ruolo di reale impotenza in seno ai consigli comunali.

Più in generale, azzerando praticamente il ruolo dei partiti politici, si è voluto istituire un modello di organizzazione amministrativa che preveda “un uomo solo al comando”, subito adottato anche dalle Regioni, che difatti dal 2000 eleggono con un meccanismo analogo a quello dei Comuni i loro presidenti, quelli impropriamente definiti “governatori”, concentrando nuovamente nelle loro mani un’altra rilevante porzione di potere. La soluzione presidenzialista, com’è scontato, affascina gli esponenti di punta dei partiti che – a livello nazionale – si alternano nelle posizioni di vertice nel gradimento popolare, al punto da indurli a promuovere riforme costituzionali, respinte poi dall’elettorato attraverso referendum che le hanno sonoramente bocciate, nel 2006 e nel 2016.

Se è innegabile che la scelta “presidenzialista” nei meccanismi elettorali ha condotto a una maggiore stabilità delle amministrazioni, va detto che essa, esautorando ogni contropotere e quasi ogni strumento di controllo, ha determinato nell’opinione pubblica la falsa percezione secondo la quale la legittimazione del potere proviene direttamente dagli elettori, anzi dalla maggioranza di essi, parte sana della popolazione, a scapito di quella malata della politica, vissuta in negativo come “casta”. Tra i più discutibili corollari di questo assunto i meccanismi di selezione del personale politico, che è emanazione non già di un partito democraticamente organizzato al suo interno, ma dal grado di gradimento dell’eletto che distribuisce cariche e ruoli a suo arbitrio. Risulta evidente che un sistema così organizzato ha di fatto distrutto la possibilità di impegnare in un percorso di crescita chi intende occuparsi di politica, muovendosi attraverso ruoli di crescente responsabilità nelle assemblee elettive, dai Consigli circoscrizionali al Parlamento, con la conseguenza, manifesta, di una dilagante inadeguatezza culturale ed operativa di coloro che reggono incarichi pubblici. E, dal momento che un ceto politico squalificato sul piano delle competenze è il più efficace assertore di una visione che auspichi “un uomo solo al comando”, ancora una volta risulta calzante la metafora del criceto, o, se preferite, quella del cane che si morde la coda.