La poesia nella pittura di Marc Chagall

| | |

In mostra a Mantova ben centotrenta opere

di Enzo Santese

 

Il Palazzo della Ragione di Mantova, nel cuore vivo della città, vicino a Piazza delle Erbe, sembra una sede concepita apposta per ospitare, fino al 3 febbraio 2019, la mostra “Come nella pittura così nella poesia” di Marc Chagall (nato a Vitebsk in Bielorussa nel 1887, morto a Saint Paul de Vence in Francia nel 1985), a cui è stato dedicato un evento di indubbia valenza storica. La scala esterna che porta al primo piano – quello delegato a contenere specificamente la rassegna – con la sua imponenza annuncia l’apertura maestosa delle sale dell’edificio dove gli spazi vivono di luminosità intensa e rendono ancor più suggestiva la grande aula trecentesca dov’è contenuta la maggior parte delle opere. La loro presenza a Mantova è dovuta a un prestito della Galleria di Stato Tret’jakov di Mosca, che raramente concede lo spostamento delle sue dotazioni nelle varie sedi internazionali; in precedenza ci sono state solo quattro uscite dal territorio della federazione russa: nel 1992 al Guggenheim di New York, nel 1993 al The Art Institut di Chicago, nel 1994 a Milano e nel 1999 a Roma. In questa circostanza sono impegnate ben 130 opere, tra cui dipinti e acquerelli risalenti agli anni 1911-1918, uno dei periodi più fervidi di novità nella ricerca dell’artista, e poi acqueforti degli anni 1923-1939. La tela Sopra la città del periodo 1914-18, è l’emblema di una condizione interna toccata dalla malinconia, sublimata peraltro dalla possibilità di trasformarsi in combustibile per un volo a due su un paesaggio diafano, immune dall’azione metamorfica del tempo.

La personalità di Chagall è sommossa da un cumulo di fantasie infantili che sa trasporre in superfici cariche di poesia e attraversate dalla magia trasfigurante delle fiabe russe mutuate dalla tradizione popolare. Le forme semplici, quasi primordiali, parlano di un mondo felice dislocato peraltro in una realtà lontana, raggiungibile solo con la spinta dell’immaginario: animali dagli occhi umani, dialoghi muti nel silenzio di ambienti liberi dalle forze di gravità (per questo è ricorrente il volo delle figure), contrasti prospettici fra presenze minuscole e altre gigantesche. In tali contesti situa ogni tanto un piccolo elemento di “disturbo”, a indicare il simbolo delle sue paure e delle sue insofferenze per alcuni tratti del mondo circostante.

Il quadro Io e il villaggio (1911) stabilisce uno snodo nell’evoluzione dell’artista che a Parigi dal 1910 al 1914, attratto dalla spinta moltiplicatrice di punti di vista del cubismo, propone una disseminazione di immagini dentro uno schermo dove è evidente la scomposizione di piani cromatici, giocati sulla trasparenza dentro una dinamica di impronta geometrica costituita dal triangolo e dal cerchio in armonica simbiosi tra loro. I Fauves per le soluzioni cromatiche e Robert Delaunay per le geometrizzazioni spaziali sono punti di riferimento fondamentali, da cui parte per elaborare un proprio riconoscibile percorso pittorico; qui entrano in gioco nell’impasto concettuale del quadro il valore della metafora e gli sconfinamenti nella realtà psicologica, su cui innesteranno poi la loro analisi i surrealisti. Attento alle sollecitazioni culturali del mondo parigino che introietta nella sua coscienza in continua fibrillazione emotiva, Chagall non può certo (e d’altro canto non vuole) cancellare i ricordi della vita di Vitebsk fatti galleggiare sovente nel suo immaginario con una sensibilità tutta ebraica dell’attaccamento alle radici. “Ho utilizzato mucche, galli e l’architettura tipica della provincia russa come fonte di ispirazione formale perché questi elementi appartengono al mio paese d’origine; ed essi senza dubbio hanno lasciato nella mia memoria visiva un’impressione più profonda di tutte le impressioni che ho ricevuto successivamente. Gli influssi originari determinano la scrittura di un artista.”

 

La cultura ebraica e gli altri apporti

L’originaria cultura ebraica sta al fondo di un’ispirazione che nel tempo si innerva di apporti diversi come la sensibilità russa e il riflesso della pittura francese delle avanguardie. Nella galassia rappresentata dall’opera di Chagall entrano in una combinazione complessa e ricca di approdi significanti più elementi: la tradizione visiva dei manoscritti in cui preleva dettagli espressivi e atmosfere mistiche, poi le scene della tradizione popolare con i suggerimenti strutturali delle icone, inoltre i grandi esponenti della cultura artistica occidentale da Rembrandt ai compagni delle avanguardie. Una curiosità onnivora lo porta a misurarsi con diversi generi e tecniche, la pittura e la scultura, il mosaico e la scenografia, la scrittura e l’incisione. Quando torna in patria da Parigi nel 1914, ha in mente di ripartire presto per la capitale parigina, ma lo scoppio della rivoluzione e poi della guerra lo costringe a rinunciare fino al 1922.

La sua sensibilità così vibratile ad ogni scossone esterno è influenzata da quegli anni difficili fervidi di cambiamenti anche nella poetica che a Parigi matura una via assolutamente personale anche sulla scorta dei contributi ricevuti dagli artisti delle avanguardie a contatto diretto o indiretto con lui. Gran parte dei quadri di questo periodo russo sono allineati in mostra al Palazzo della Ragione di Mantova; qui la foga espressiva addensa nello spazio della tela un intreccio di storie a volte slegate tra loro eppur combinate in un unicum brulicante di significati. In alcune un dettaglio apparentemente incongruo rappresenta il dato della realtà che l’artista indica per esorcizzarne gli influssi negativi in un mondo in cui vari aspetti lo caricano spesso di ansie per situazioni che gli creano disagi di vario genere, come possono risultare le controversie e i conflitti del suo tempo. Per questo cerca “l’isola che non c’è”, facendo volare i suoi personaggi in un cielo che è una sorta di zona franca e libera dagli appesantimenti del quotidiano. In tale slancio onirico egli stesso vuole volare verso orizzonti di luce piena, mentre il paesaggio sottostante si disloca in una pace irreale, di derivazione quasi mistica, in virtù di una ridotta gamma cromatica dominata da varie modulazioni del grigio, su cui si innestano rari tocchi di verde, giallo e rosa antico, uno dei colori più amati dall’artista.

 

Il teatro ebraico e il palcoscenico della vita

La mostra, curata da Gabriella Di Milia con la collaborazione della Galleria di Stato Tret’jakov di Mosca, è promossa dal Comune e organizzata e promossa con la casa editrice Electa, a cui si deve la pubblicazione di un catalogo ricco di testi e immagini. Il progetto espositivo ingloba anche i famosi sette teleri del 1920, realizzati per il “Teatro ebraico da camera” di Mosca, il cui ambiente è stato “ricostruito” all’interno del Palazzo della Ragione con una “scatola” di 40 metri quadrati di superficie. Nella temperie post-rivoluzionaria l’artista viene incaricato di progettare e realizzare un ciclo di opere che si combinino con gli spazi interni e ne costituiscano il degno ornamento. La necessità che consegue è quella delle dimensioni monumentali che aprono finestre su realtà fantastiche collegate alla materia teatrale. Nascono quindi sette mastodontiche tele – i cosiddetti teleri – che, di primo acchito, sembrano distanziarsi dalle peculiarità espressive di Chagall; l’artista dal dibattito dei tempi assume infatti come proprio ed elabora il linguaggio dell’attualità, impostato sul movimento e la freschezza figurale. L’Introduzione al teatro ebraico, con i suoi m. 8 x 3, è un pannello collocato nella parete sinistra della platea dove l’autore mostra di scostarsi dalle modalità espressive precedenti adottando una logica compositiva più sintetica negli elementi costitutivi e immediata nella proposizione dei contenuti. Fa aleggiare nell’atmosfera del dipinto una certa problematicità del presente focalizzando con potenza a tratti caricaturale comportamenti, gesti, espressioni, situazioni individuali e collettive. Il quadro come molti altri dà l’idea a un primo contatto di contenere una logica narrativa e di guidare quindi lo sguardo dell’osservatore lungo un virtuale percorso di avvenimenti in successione, in realtà presto si è catturati dal vorticoso giustapporsi di immagini ambivalenti, capaci di sospingere l’osservatore verso territori fantastici, spogliati da ogni appesantimento della fisicità e dotati della medesima leggerezza del sogno.

Nella parete di destra come nel teatro vero e proprio i quattro quadri relativi alle Arti: la Musica impersonata da un violinista mefistofelico, la Danza da un’imponente ballerina, il Teatro dal Badchan (l’animatore di matrimoni ebrei), e la Letteratura dalla figura candida scriba-poeta.

I pannelli sono “sormontati” da una striscia di simboli, un fregio che rappresenta il banchetto nuziale, in cui accanto a pesci, pani, frutta e galli vivi, si serve anche un amante defunto, per accennare forse al fatto che il vecchio teatro ebraico sarebbe stato soppiantato da una poetica dell’assurdo. Verso la porta dell’uscita il dipinto Amore sulla scena con immagini suggestive che si prestano a molteplici interpretazioni con implicanze psichiche. Sono opere che danno la temperatura di una tensione di ricerca ricca di suggestioni e abbastanza lontana dal periodo precedente rivolto al recupero memoriale.

L’energia espressiva emerge soprattutto nel disegno e nelle incisioni che celebrano l’attitudine specifica a trasformare lo spazio vuoto in palcoscenico di presenze pulsanti. È il caso delle illustrazioni per Le anime morte di Gogol’, per le favole di La Fontaine e per la Bibbia. Partendo da un assunto di sapore cubista, affastella immagini in uno schermo di vari centri dinamici dell’azione narrativa. Chagall è stato sempre in ascolto delle emissioni più cospicue dell’arte passata e di quella contemporanea, ma ha preferito restare “esterno” come in uno stallo d’osservazione attenta e registrazione puntuale.

In un’intervista a Florent Fels in Les Nouvelles Littéraires del 1924: ”Ho trentacinque anni. Sono nato a Vitebsk, ma sono nato anche a Parigi. I miei genitori erano contadini. Se c’è una cosa che odio è l’intellettualismo. Mi lasciano indifferente le manifestazioni esteriori, i saloni, le mostre. Lavoro nel mio angolino e poco mi importa di come le mie opere saranno viste o giudicate, ma tengo conto delle opinioni di alcuni amici.” Tra questi ci sono sicuramente Paul Cézanne, la capacità di cogliere l’intima essenza del paesaggio, composto non come lo vede, ma così come lo “sente”, e Georges Braque del quale sente il fascino per la sintesi figurale, sfaccettata in esiti cubisti.

In un’inchiesta sul tema dell’“incontro”del 1934 promossa dal Minotaure, la rivista vicina alla filosofia di Breton, ribadisce con chiarezza: “Spazzando via le mie illusioni, mi ha fatto scoprire delle prospettive sconosciute e, rapportato all’età, mi trattiene nelle sue catene. Più preziosa, forse, di tutte le amicizie e gli incontri, lei è il richiamo di un abisso, di una speranza.”

Nella mostra una parte non marginale ricoprono le incisioni che hanno un ruolo importante nella vita dell’artista, impegnato a sperimentare le valenze di un segno come duttile strumento di racconto, di evocazione, di illustrazione.

La rassegna Così nella pittura così nella poesia – grazie a un’accorta organizzazione delle visite – ha tra l’altro il pregio di lasciare all’osservatore il tempo e lo spazio per vedere l’opera con la tranquillità necessaria a studiarne le più interne articolazioni, a riflettere sui molteplici contenuti rivelatori di un’anima, quella di Chagall, in continua fibrillazione emotiva e sentimentale. Come ribadisce il lavoro realizzato per il libro della moglie, Bella Rosenfeld, che sposa nel 1915 in un matrimonio rievocato nella famosa opera Nozze (1918).