Hannah Arendt e la menzogna in politica
filosofia | Francesco Carbone | Il Ponte rosso N° 39 | Novembre-Dicembre 2018
di Francesco Carbone
«È forse proprio dell’essenza stessa della verità essere impotente e dell’essenza stessa del potere essere ingannevole?»
(Hannah Arendt, Verità e politica, Boringhieri 2004)
«i cani d’Europa latrano,
e le nazioni vive attendono,
ognuna sequestrata nel suo odio»
(Wystan Auden, In memoria di W. B. Yeats, 1939)
Da uno studio del 2012, della Association of Certified Fraud Examiners, risultava già che mentiamo quasi come respiriamo (200 volte al giorno); il potere però, chiunque lo detenga, mente anche tra un respiro e l’altro: mente anche quando dice la verità. Questo perché in politica la verità non viene mai detta per amore suo, ma solo per un proprio vantaggio: così fan tutti, e anche noi quando agiamo politicamente, e cioè in vista di un beneficio, rispetto al quale la verità sarà sempre uno dei mezzi possibili e mai il fine.
È un arcobaleno di sfumature il mondo della menzogna: se può capitare di «dire il falso senza mentire», per esempio quando affermiamo in buona fede che abbiamo visto la Madonna o un UFO, soprattutto «si può anche dire il vero in vista dell’inganno, vale a dire mentendo»: per esempio quando diciamo ipocritamente una verità con lo scopo di rovinare la reputazione di una brava persona che ci fa ombra (Jacques Derrida, Storia della menzogna, Castelvecchi 2014).
Su sette miliardi e mezzo di uomini, pare si sentano vincolati comunque alla verità verso amici e nemici i Maori, i Quaccheri e i Wahabiti: non esattamente i popoli che hanno colonizzato il mondo (Alexandre Koyré, Sulla menzogna politica, Lindau 2010).
Chissà come avranno fatto a sopravvivere, perché «la verità non è un’arma»; e se usata come un’arma «si smussa, oppure diventa una menzogna» (Hannah Arendt, Quaderni e Diari, 1950-1973, Neri Pozza, 2007). Questa condizione della verità, che usata politicamente diventa il suo contrario, è l’aporia, il paradosso irrisolvibile. La menzogna per sua natura è una cacciatrice di consenso, e la democrazia come occasione di demagogia è il suo humus; per la verità invece sarà sempre una fatica di Sisifo diventare democratica senza stravolgersi: per persuadere, dovrebbe infatti farsi retoricamente efficace e seduttiva, vincere usando gli stessi trucchi che qualunque avvocato conosce, perché «non dalla verità ma dall’opinione viene la persuasione» (Platone, Fedro, 260). I processi di Socrate e di Gesù restano i due simboli di questa impossibilità della verità, di per sé senza potere, di persuadere la gente. Socrate e Gesù testimoniano la verità, non la dimostrano.
Rispetto alla fatica di dire senza paura esiste solo di ciò che è, e non esiste di tutto ciò che non è (Aristotele, Metafisica, 1011b), la menzogna offre «l’oppio del minimo sforzo» (Vladimir Jankélevic, La menzogna e il malinteso, Raffaello Cortina, 2000). Ma in politica la scommessa della menzogna è ben più radicale: il falso affermato oggi si dà da fare per diventare il vero di domani: «è possibile arrischiarsi a dire che la menzogna è l’avvenire (…). Dire la verità significa al contrario dire ciò che è o ciò che sarà stato, preferendo piuttosto il passato» (Jacques Derrida, op. cit.). E proprio Derrida cita la Arendt quando scriveva, nel 1967, che c’è «un’innegabile affinità della menzogna con l’azione, con il cambiare il mondo – in breve con la politica» (Verità e politica, Bollati Boringhieri, 2004).
Rispetto a questo costante fondo antropologico che oscilla tra oblio e bugie con sprazzi di discontinua verità, nell’oggi mondiale dell’agonia della Natura, della digitalizzazione della vita umana, e dei morbosi populismi che vorrebbero trasformare l’inverno del nostro scontento in un’era glaciale del rancore, sarebbe bello trovare il modo di essere micidialmente inattuali.
Nel luglio 1950, quasi all’inizio dei suoi diari, Hannah Arendt scriveva che «vivere realmente significa realizzare questo presente – un mezzo fra i tanti è il non-dimenticare-mai – e fare in modo che non si scinda in passato e futuro». Ma una sempre più abissale scissione del presente dal passato e dal futuro è sotto lo sguardo di chiunque abbia occhi per vedere: non siamo finiti nel cuore di tenebra della «società dell’istante» (Filippo Ceccarelli, Invano, Feltrinelli 2018)?
A rileggere la Arendt invita il recente e bellissimo Platone di Adriana Cavarero, una delle migliori studiose di Platone (Raffaello Cortina Editore, 2018, a cura di Olivia Guaraldo).
Platone è il pensatore, per noi scandaloso, dell’impossibilità della democrazia come regime di giustizia. È sempre un bene leggere i detrattori geniali di ciò che amiamo. E il Platone della Cavarero è in quel coro di opere che stanno raccontando il nostro presente per quello che è: un tempo in cui la vera posta in gioco è la liquidazione della stessa realtà (della verità), rimpiazzata da mondi virtuali, anestetizzanti e sonnambuli.
In particolare nel saggio Per un’archeologia della post-verità (2017), Cavarero ci propone, come «cornice concettuale illuminante al fine di aggiornare l’archeologia della post-verità», la Arendt di La menzogna in politica. Riflessioni sui Pentagon Papers (Marietti, 2006).
La menzogna in politica apparve nel New York Review of Books nel 1972, l’anno dello scandalo Watergate che avrebbe portato alle dimissioni di Richard Nixon. Nel 1971 il New York Times aveva pubblicato alcuni stralci delle 7.000 pagine, raccolte in 47 volumi, dei documenti segreti prodotti dal Dipartimento della difesa sull’impegno degli U.S.A. in Vietnam: un quarto di secolo di progressivi disastri. In quei documenti, gli strateghi del Pentagono davano per scontata l’assoluta inutilità della guerra: questa certezza era tenuta nascosta al popolo americano – ma anche al presidente Johnson – dallo Stato profondo degli U.S.A (sul concetto di Stato profondo vedi il numero di Limes: Stati profondi gli abissi del potere, settembre 2018).
Come sempre, come fece nove anni prima quando scrisse La banalità del male, Arendt studia e ragiona: dunque, chi ebbe il potere di mentire per continuare una guerra catastrofica furono quegli esperti, i problem solvers, «convinti che la politica non fosse nient’altro che una variante delle pubbliche relazioni», con «un’ignoranza dello sfondo storico di riferimento davvero stupefacente e assolutamente onesta» e con «il volontario e deliberato disprezzo per tutti i fatti, storici, politici e geografici, per più di venticinque anni». Che si possa essere assolutamente onesti e allo stesso tempo disprezzare deliberatamente la verità dei fatti, lo si può spiegare così: in una situazione in cui «la sconfitta era meno temuta dell’ammissione della sconfitta», il Pentagono si convinse delle sue stesse menzogne, rimbambendosi in una condizione di internal self-deception: in un’auto-allucinazione che è un rischio intrinseco a ogni potere (per evitare la quale, Montesquieu teorizzò la celebre divisione dei poteri nello Spirito delle leggi, 1748).
Adriana Cavarero riconosce la stessa patologia nella politica di questo nostro tempo social, global, rabbioso e sovranista: «il registro oggettivo, razionale (…) a cui la verità si riferisce, diventa irrilevante»; perché «ciò che è in gioco non è la verità ma il potere: il potere generalmente inteso come dominio sugli altri attraverso mezzi discorsivi, o meglio, il potere come caratteristica distintiva di performance linguistiche che riescono a dimostrare l’irrilevanza e, in ultima analisi, la superfluità della verità»; così «gli attuali politici populisti non mentono per nascondere la verità ma per affermare il loro potere sulla realtà. Le parole per loro non sono referenti della realtà ma strumenti per esibire un potere incontrastato, un potere che programmaticamente si svincola dall’ambito della razionalità, della logica e del rendere ragione».
È uno stato di cose che la Arendt aveva studiato molte volte, non solo nel classico Origini del totalitarismo del 1948 (Einaudi, 2009). Per esempio, nella Germania del secondo dopoguerra, ben prima di internet e dei social, senza neppure l’acqua corrente e legna per riscaldarsi, i tedeschi evitarono ogni assunzione di responsabilità rispetto al nazismo fino a poco prima idolatrato: praticarono piuttosto «un rifiuto profondamente radicato, ostinato e in qualche caso brutale di confrontarsi e fare i conti con ciò che era realmente accaduto»; e tanto più i fatti erano terribili, tanto più pervicace fu la loro capacità di trovarli opinabili; così il «pretesto che ognuno ha diritto ad una propria opinione» mascherò un osceno «diritto all’ignoranza» (Hannah Arendt, Ritorno in Germania, Donzelli 1996).
Quel dopoguerra non appare così diverso da questo nostro mondo olistico e pulsionale, di cui gli attuali studiosi della post-verità spesso enfatizzano la novità, scrivendo per esempio che «se un tempo la verità era oggetto di giudizio, oggi è oggetto di sentire» (Anna Maria, Postverità Laterza 2018). Forse quel tempo raziocinante non è mai esistito, e la massa è sempre stata il «grosso animale» di cui parla Platone nella Repubblica.
Machiavelli (Discorsi sulla prima deca di Tito Livio) non sarebbe rimasto stupito dalla deriva attuale della democrazia, dove nessuna opinione paga il prezzo di una verifica nei fatti, in cui non c’è verità (sui vaccini, sul fascismo, sull’inquinamento…) che non degradi entropicamente a opinione tra le altre. Maurizio Ferraris è arrivato ad essere così platonico da violare il tabù: «il suffragio universale ha dato il via a una corsa al ribasso in cui vince il peggiore», perché «i populismi degli ultimi decenni hanno tratto vantaggio proprio dalla separazione tra democrazia e verità» (Maurizio Ferraris, Postverità e altri enigmi il Mulino, 2017).
Prima degli ultimi decenni, nel 1941 Hannah Arendt, esule a Parigi, poteva riconoscere che quella separazione è la condizione di ogni totalitarismo, e che «il moderno propagandista non si preoccupa della realtà, perché convinto della totale mancanza di valore della conoscenza, esattamente come il sofista greco era convito della completa inutilità della verità» (Hannah Arendt, Il razzismo prima del razzismo, Castelvecchi 2018): sono meccanismi di consenso che hanno permesso dittature atroci e due guerre mondiali. Che la stessa democrazia generi dal suo interno la sua dissoluzione è una delle croci della filosofia politica da sempre: ed è plurisecolare la ricerca di anticorpi.
Anche in Hannah Arendt la questione della conciliabilità tra democrazia e verità resta senza soluzione: da una parte afferma che «dove tutti mentono riguardo a ogni cosa importante, colui che dice la verità, lo sappia o no, (…) nell’improbabile caso in cui sopravviva, ha fatto un primo passo verso il cambiamento del mondo»; dall’altra che «considerare la politica dalla prospettiva della verità, come ho fatto qui, significa collocarsi al di fuori dell’ambito politico», e che l’amore per la verità in sé è e sarà sempre «uno dei vari modi di essere soli»: «il bugiardo è un uomo d’azione, chi dice la verità (…) non lo è in alcun caso» ((Verità e politica, Boringhieri 2004).
E si torna a sospettare, come Leopardi, Nietzsche, ecc., che l’ignoranza nutrita di menzogne sia la condizione stessa del fare, che «homo non intelligendo fit omnia» (Gian Battista Vico, La scienza nuova).