Letteratura italiana in Dalmazia

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Giorgio Baroni ha curato un testo specialistico necessario, più che utile, sugli autori italiani dell’altra sponda dell’Adriatico

di Fulvio Senardi

 

Un libro più che utile, necessario, per una prospettiva completa della letteratura italiana che non voglia limitarsi al dato di fatto dell’italianità in contrazione degli ultimi due secoli. Mi riferisco alla Storia della letteratura dalmata italiana, curata da Giorgio Baroni, un pollone della Biblioteca della «Rivista di Letteratura Italiana», che nasce grazie ad una squadra di ricercatori scelti e coordinati da Giorgio Baroni, direttamente responsabile, oltre che dell’opera nel suo insieme, della V sezione del volume, quella che prende in esame la letteratura dalmata italiana tra il 1866 al 1918. Il periodo più drammatico della storia degli italiani di Dalmazia, si dovrebbe aggiungere, perché dopo la sconfitta nella Terza guerra d’Indipendenza e la cessione del Veneto al Regno d’Italia, l’Impero austriaco – che si appresta a diventare austro-ungarico – comincia a considerare gli austro-italiani con occhio nuovo, ravvisando in essi sudditi potenzialmente infidi. Ciò ebbe una grave conseguenza (evito di approfondire un discorso che sarebbe troppo lungo per queste pagine e mi limito a spremerne il succo): laddove essi rappresentavano una minoranza, ancorché prestigiosa per cultura e tradizioni, come in Dalmazia, il potere imperiale (che nomina Luogotenenti di etnia slava: Rodić e Jovanović, dal 1870 al 1885, disponibili a favorire i connazionali, sotto l’occhio benevolo di Edouard von Taaffee, Ministerpräsident dal 1879 al 1893) operò con parzialità tanto evidente da meritarsi perfino le censure del Partito liberale austriaco (Verfassungspartei) di cui si faceva portavoce il giornale viennese «Neue Freie Presse». E fu in quel periodo infatti che dopo due anni di duro scontro politico, culminante nel 1880 nello scioglimento del Consiglio comunale e la destituzione del sindaco Bajamonti, avvenne l’episodio emblematico e decisivo della sconfitta elettorale degli autonomisti filo-italiani a Spalato, primo episodio di un rapido declino politico (e quindi linguistico e culturale).

Ma vediamo da vicino l’architettura del volume: la prima sezione, Le Origini, il Trecento e il Quattrocento è curata da Renzo Rabboni; la II, Il Cinquecento e Il Seicento da Guglielmo Barucci; la III, Dal 1700 al 1789 da Elena Rampazzo; la IV, Dal 1789 al 1866 da Francesco Favaro; della V si è detto; la VI, Gli ultimi cento anni: dalmati e italiani è a cura di Michela Rusi. Ciascun coordinatore di sezione si è poi avvalso della collaborazione di studiosi altrettanto titolati, per mettere a fuoco aspetti particolari o stilare medaglioni biografici relativi al periodo volta per volta trattato (secondo una periodizzazione ineccepibile quando alla scansione delle epoche della storia letteraria). Completa la ricca panoramica un’antologia di testi, scaricabile on line, che permette la fruizione di opere spesso altrimenti inaccessibili. È evidente che dietro ad un’opera così monumentale c’è un lungo lavoro di preparazione, il cui merito va soprattutto a Giorgio Baroni e ai suoi più diretti collaboratori, impegnati, già da molti anni, a sondare un terreno che appariva, se non vergine, certo assai poco esplorato, organizzando convegni di mirata focalizzazione tematica e curando poi la pubblicazione degli Atti, in modo da colmare lacune e approfondire temi di ricerca per raggiungere quella massa critica di conoscenze che ha reso possibile il presente volume (in particolare: L’esodo giuliano-dalmata nella letteratura, 2014; Letteratura dalmata italiana, 2016; Vele d’autore nell’Adriatico, 2018; Visioni d’Istria, Fiume, Dalmazia nella letteratura italiana, 2020).

Ne risulta un panorama ricco e variegato, dove la Dalmazia, sia pure in ritardata risonanza con l’attività letteraria della Penisola, dimostra una grande capacità di rielaborazione, in un contesto di serrato interscambio con il mondo slavo balcanico (senza che ciò significasse, fino al prorompere dei nazionalismi, irriducibile opposizione antagonistica) e riuscendo perfino a mietere, in certi casi, qualche alloro, «come la pubblicazione del primo romanzo italiano, opera di Giovan Francesco Biondi dell’isola di Lesina, e della prima grammatica italiana, frutto delle fatiche di Giovan Francesco Fortunio, nato nell’isola di Selve» (p. 21), o come le brillanti deduzioni anti-aristoteliche di un pensatore e scrittore sfaccettato come Francesco Patrizi, interprete di prima grandezza – e ciò gli procurò qualche fastidio con l’Inquisizione – di un rinnovato e per certi aspetti provocatorio platonismo (intellettuale così prestigioso da farcelo invidiare dai vicini di casa adriatici che lo hanno voluto dei loro, croatizzandolo come Frane Petrić).

Senza nulla togliere però all’importanza e alla caratura complessiva dell’opera c’è qualche osservazione che mi sento di dover fare. Innanzitutto sul piano, diremmo così, sociologico, ovvero relativo alla capacità di incidere sul piano della conoscenza diffusa di un volume così “accademico”. Questa Storia della letteratura dalmata italiana si muove sui binari della più specialistica scientificità, con un linguaggio spesso complesso e con un ricco bagaglio di note (corredo indispensabile, peraltro, come garanzia della correttezza delle sue procedure), condannata, in un certo qual senso, a una circolazione esclusiva dentro i confini sempre meno porosi (e prestigiosi: oggi bisogna essere giornalisti-tuttologi, meglio se con proprio blog) dell’Università: potrà contrastare il crescente “anafalbetismo” storico-culturale di italiani, popolo con “con scarsa e selettiva memoria del loro passato” (così il politologo Gianfranco Pasquino) e quindi sempre meno consapevoli del proprio patrimonio di civiltà? A sintesi del ponderoso volume di cui scriviamo e mantenendone fermi risultanze ed acquisti, non sarebbe dunque bene pensare fin da ora a un volumetto agile, scorrevole, adatto anche a lettori di meno acuminata competenza (e più avvicinabile anche sul piano economico), capace di spiegare (anche a laureati in discipline diverse da “Lettere e filosofia”) la consistenza e la portata della Letteratura dalmata italiana, un fenomeno esaurito e quindi ormai di scarsissima evidenza come una stella spenta nel cielo notturno? Un po’ quella funzione che interpreta l’Universale Paperbacks de “il Mulino”?

Altra riflessione. Il libro inizia con un paragrafo che afferma come «le prime attestazioni di una letteratura dalmata ‘italiana’ in latino o in lingua volgare, nelle sue varierà territoriali, appartengono al secolo XV, e si fanno, anzi consistenti, nella seconda metà del secolo» (p. 25), seguito da un capitolo dedicato ai prodromi veneziani. Solo più avanti si accenna rapidamente al fatto che «dal punto di vista linguistico, la dominazione ungaro-croata», un periodo assai complicato di invasioni, conflitti e cambi di sovranità, che va dal X al XIV secolo, «non comporta la scomparsa della parlata romanza, che veniva utilizzata soprattutto per finalità pratiche» (30). Del tutto legittimo vedere nel Trecento e nel Quattrocento le origini della letteratura dalmata italiana, ma non sarebbe stato opportuno affidare a un filologo o a un dialettologo un breve paragrafo iniziale con il compito di chiarire la continuità di presenza, dall’epoca romana lungo l’alto medioevo fino al Trecento della riconquistata espressione scritta, di comunità parlanti dialetti romanzi sulla sponda orientale dell’Adriatico (il tema ormai risolto del “dalmatico”), in modo da dissipare ogni malinteso sul carattere intrinsecamente autoctono e legittimamente “locale” della più tarda produzione letteraria? Non dimentichiamoci che c’è ancora chi sostiene la natura “coloniale” dell’italianità dalmata, e forse una chiarificazione preliminare non sarebbe stata mal spesa.

Ultima osservazione, che probabilmente deriva da una mia iper-sensibilità al tema di Niccolò Tommaseo, per essermene occupato in anni lontani (“quant’è bella giovinezza che si fugge tuttavia”). Ho trovato inappropriato che al grande dalmata si dedichino, con messa a fuoco monografica, solo poche paginette. Ancorché venga spesso chiamato in causa come testimone ed esegeta della letteratura italiana di Dalmazia (con parecchie citazioni tratte dal suo Intorno a cose dalmatiche e triestine), qualche accenno alla nascita e agli anni di scuola (in una sorta di riflessione bifronte che intreccia la sua vicenda con quella di Foscolo) si legge solo fra le pagine 225 e 229, un Cenno a Tommaseo poeta, copre la pagine 269-272, con un successivo richiamo di poche righe a p. 274. Inoltre il fatto che al Tommaseo narratore si dedichi solo una nota striminzita a p. 270: «La sua prova narrativa più celebre è il romanzo Fede e bellezza, composto nel 1840, in Francia ed edito a Venezia una decina d’anni dopo; compose inoltre un romanzo storico, Il duca d’Atene e varie novelle» (povero Niccolò, potevi risparmiarti tante fatiche), lascia francamente perplessi. Certo, mi si dirà: Tommaseo lo conoscono tutti (tutti? Provate a chiedere agli amici di mia figlia, laureati in giurisprudenza: un caffè di Trieste, vi risponderanno); se si fosse scritto di Tommaseo, lui si sarebbe “mangiato” metà del libro (est modus in rebus…); è un intellettuale che si emancipa prestissimo dal soffocante milieu provinciale per mettere le vele a venti più propizi, non dunque un “dalmata schietto”, avendo lasciato la terra natale a quindici anni per ritornarvi poi una sola volta.

Ma anche Francesco Patrizi lascia Cherso a quindici anni per non rivedere mai più la natia terra selvaggia, e gli spetta l’onore di 9 pagine; per non parlare di Enzo Bettizza, pure lui in esilio giovanissimo – a diciott’anni – e a cui si dedicano addirittura 10 pagine (a voler scherzosamente impiegare un prosaico criterio ragionieristico sembrerebbe lui il gigante di otto secoli di letteratura italiana di Dalmazia): la storia degli italiani di Dalmazia è la storia di una costante “fuga dei cervelli”, alla ricerca del meglio oltre le porte di casa (ma è un fenomeno che non caratterizza solo la Dalmazia del passato, lo sappiano fin troppo bene…). In fondo, il dramma di piccole patrie povere (non solo in senso economico) che non hanno pane per i figli e dove i posti al sole sono già presi. Se ne va Patrizi e se ne va Paravia, lasciano la terra natia Tommaseo e Colautti e, agevolati da un contesto multiculturale e plurilinguistico, se ne vanno pure, per ambizione di prestigio e prosperità, giovani talenti di ascendenza slava (Marin Držić-Marino Darsa e Ruđer Bošković-Ruggero Boscovich, per fare qualche nome). Ora, assottigliando, per esempio, l’ampio spazio concesso a illustrare l’opera di Mirko Deanović e Žarko Muljačić (benemeriti della filologia e dell’italianistica ma quanto c’entrano con la letteratura dalmata italiana propriamente detta?), chi ha curato il paragrafo Per concludere, un cenno a Tommaseo poeta, avrebbe forse avuto un po’ di spazio a disposizione per aggiungere (magari anche in nota) che il Sebenicense aveva stilato quella quisquiglia che è il Dizionario della lingua italiana, composto il trattato politico Dell’Italia, messo il suo cuore a nudo (e la sua vita in vetrina) nello sfacciato capolavoro di autoanalisi che è il Diario intimo, composto in serbo-croato (con un aiutino, ma cosa importa) le Iskrice (e qui, mi si permetta! Tommaseo è l’unico scrittore che i due popoli dirimpettai sulle sponde dell’Adriatico considerano un grande autore, ciascuno, della propria letteratura: un dalmata al quadrato, se si può dire), ecc. ecc. ecc.

 

 

Giorgio Baroni

(a cura di)

Storia della letteratura

dalmata italiana

Fabrizio Serra, Pisa 2022

  1. 440. euro 88,00