NULLA È PIÙ STRANO DEL PARADISO

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di Stefano Crisafulli

È un film in bianco e nero, anche se l’anno di uscita nelle sale è il 1984, quando il colore è sin troppo abusato al cinema. Più bianco che nero, a dirla tutta: infatti non è un ‘noir’, perché non muore nessuno e non accade nulla di drammatico. Eppure qualcosa accade. Magari non dentro la storia, ma durante quelle infinite dissolvenze (stavolta sì) in nero di cui il film è costellato e che fungono, allo stesso tempo, da separazione e raccordo tra le inquadrature.

Stiamo parlando di Stranger than paradise (in italiano verrebbe letteralmente: Più strano del paradiso), secondo lungometraggio, in ordine di tempo, del regista americano Jim Jarmusch, dopo l’esordio con Permanent vacation. Girato, nella prima delle tre parti (‘The new world’), con gli scarti di pellicola del film di Wenders Lo stato delle cose, Stranger than paradise godrà di un successo, per certi versi, inaspettato, vincendo la ‘Camera d’or’ a Cannes e il ‘Pardo d’oro’ a Locarno. Una vera e propria consacrazione per Jarmusch, che poi firmerà altri film belli e ambiziosi come Daunbailò nel 1986 e Dead man nel 1995, mantenendo una coerenza stilistica che gli permetterà di evitare la trappola del ‘mainstream’ e i numerosi tentativi di categorizzazione. Ma, se consideriamo Permanent vacation un primo esperimento, valido anche se un po’ acerbo, della sua poetica, che potremmo chiamare la poetica del vuoto, è Stranger than paradise la pietra miliare del suo percorso artistico. In questo film si possono già trovare, in nuce, tutti gli elementi caratteristici del cinema di Jarmusch: la rarefazione dei dialoghi, la difficoltà di comunicare, la preferenza verso i non-luoghi (motel, aeroporti), lo smantellamento del sogno americano, la ricerca di un’identità perduta e, non ultima, una buona dose d’ironia. A questi elementi va aggiunto un ingrediente fondamentale: la musica.

Non a caso protagonista del film è John Lurie, attore feticcio di Jarmusch (almeno nei primi due lavori), nonché musicista di mestiere, che interpreta il ruolo di Willie, un immigrato ungherese che vive di espedienti alla periferia di New York. Lurie firma la colonna sonora, che si avvale anche di un brano di Screamin’ Jay Hawkins, I put a spell on you, ascoltato spesso da Eva, la protagonista femminile interpretata da Eszter Balint. Le entrate principali di Willie provengono da effimere vincite alle corse o da piccole truffe al poker fatte assieme al suo amico e compare Eddie (Richard Edson). Quando arriva dall’Ungheria sua cugina Eva, la routine di Willie subisce un sussulto: Eva non sa nulla degli USA e dovrà stare per dieci giorni nel suo appartamento, sporco e squallido. La convivenza, inizialmente problematica, sembra migliorare, ma Eva deve andare in Connecticut dalla zia Lotte. Grazie ad una vincita particolarmente buona, Willie e Eddie in seguito la raggiungeranno per portarla dal gelo del Connecticut al caldo paradisiaco della Florida. Ma il presunto paradiso non è tale e la complice amicizia si sgretolerà ben presto.di