Di nuovo come un tempo

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Anche i non più giovani, quelli che hanno vissuto con consapevolezza le battaglie referendarie che hanno consentito nel 1974 di respingere l’offensiva contro la legge sul divorzio e poi, nel 1981, di ripetere l’esperienza in difesa della legge 194 sull’interruzione della gravidanza è difficile che non intravvedano, nelle polemiche di questi giorni, un’eco delle contrapposizioni che allora divisero il paese in due schieramenti.

Certo, la storia non si ripete meccanicamente, ma talune analogie tornano alla mente, su tutte un’argomentazione non priva di efficacia usata allora dai sostenitori dei diritti civili. Si trattava della constatazione che le due leggi non costringevano nessuno a divorziare, né costringevano nessuna donna ad abortire, ma si limitavano a concedere a chi invece intendesse farlo di avere la possibilità di esercitare un diritto in condizioni degne e non, come in precedenza si faceva, ricorrendo al sotterfugio dell’annullamento presso la Sacra Rota oppure a una clinica all’estero. Per chi, ovviamente, queste cose poteva permettersele: per gli altri c’era il concubinato senza alcuna tutela civile per quanti intendevano rifarsi una famiglia, oppure la sordida esperienza di aborti clandestini, praticati il più delle volte in condizioni insostenibili di insicurezza sanitaria.

Ora, altri passi avanti si sono prodotti, sempre faticosamente, nella nostra legislazione e, quel che più conta, in un sentire laico e tollerante diffuso dell’opinione pubblica. Ciò ha consentito che si pervenisse a una normativa sulle unioni civili anche per coppie omosessuali, che si tentasse la via di una regolamentazione dei diritti persino nel fine vita, che si considerassero penalmente rilevanti atti di omofobia e di razzismo. Adesso di nuovo sorge, strisciando qua e là, ma assumendo sempre di più la connotazione di un movimento organizzato reazionario rispetto alle tematiche dei diritti civili, che intende volgere a proprio favore la congiunzione astrale di una forza esplicitamente di destra, forte della presenza nello schieramento del governo come pure alla guida delle regioni e degli enti locali.

A Trieste, nelle ultime settimane, abbiamo assistito a due significativi episodi. Da parte del presidente della Giunta la concessione del patrocinio della Regione alla manifestazione del Congresso mondiale delle famiglie svoltosi a Verona in un clima di contrasto alla legge sull’interruzione della gravidanza e indicante la cosiddetta “famiglia naturale” come unico elemento di base stabile e fondamentale della società, contrapposto alla tutela di altre tipologie di unioni, in primo luogo quelle omosessuali.

Il filo conduttore della manifestazione veronese ha fatto riferimento all’area più intransigente e tradizionalista della Chiesa cattolica, anticonciliare, insofferente rispetto al magistero di papa Francesco, che, per limitarsi alla politica italiana, stimola l’opposizione ai valori di accoglienza e solidarietà espressi da una parte della tradizione cattolica, indicando nella religione e nei suoi simboli gli elementi costitutivi di una cultura di opposizione agli altri, siano essi migranti che omosessuali.

A confluire in tale deriva la limitazione imposta dal Comune di Trieste alla manifestazione del Gay Pride FVG programmata per il prossimo mese di giugno, con la mancata concessione all’uso della Piazza Unità da parte dei manifestanti. Il provvedimento della Giunta comunale rivela anch’esso un atteggiamento fortemente ideologico e improntato a una concezione proprietaria della cosa pubblica. Cosa del resto che era possibile prevedere da tempo, al margine di un comizio del leader leghista, considerate le sguaiate manifestazioni di compiaciuta ilarità dell’attuale sindaco e dei suoi accoliti ai turpiloqui e ai volgari insulti rivolti ai cittadini che si preparavano a votare per un altro candidato.

Trieste, anche in buona parte delle sue componenti conservatrici, è una città d’impronta laica e democratica, che non si merita provvedimenti e prese di posizione ottusamente regressivi e autoritari.