TEATRO – Sara Alzetta è Maria Farrar

Alzetta-Maria-Farrar-1-212x300Sara Alzetta è Maria Farrar

di Walter Chiereghin

Gli spettatori che entrano in sala la trovano già lì, sul palcoscenico, seduta di spalle su uno sgabello che è l’unica concessione alla scenografia: una camicia azzurra scucita sulla schiena, oscillazioni compulsive delle gambe, le mani che non riescono a star ferme, movimenti di scatto, a tratti bofonchia qualcosa, volta la faccia verso il pubblico, esponendo a chi la vede uno sguardo angosciato, un’espressione di panico dipinta sul volto, che subito si rigira, offrendo solo la nuca alla vista di coloro che stanno in sala.

Inizia così, prima che la sala si sia riempita e continua poi per alcuni minuti a srotolarsi il silenzio che Sara Alzetta impone, come a separare i tempi della sua recitazione da quelli ordinari in cui ciascuno è immerso nella propria individuale condizione, un intervallo che consente a chi è seduto nella saletta del Ridottino del Teatro Miela di varcare la soglia tra finzione e realtà ed immergersi nel dramma che l’attrice, da sola, intende proporre.

Dopo, intervallati da una voce registrata fuori campo che annuncia quanto si viene rappresentando, cioè la storia di Maria Farrar, l’infanticida assassinata in carcere, cantata nel 1922 da Bertold Brecht in una delle sue più celebri poesie, della quale il testo teatrale di Manlio Marinelli ci propone una versione italiana, una rilettura che fa di Maria un’immigrata meridionale della periferia torinese, una ragazza bruttina, rachitica, sciatta, ignorante ai limiti dell’analfabetismo, che esibisce senza ritegno il suo vissuto fatto di un’infanzia al fianco di una madre che viveva una sua relazione con un camionista calabrese, storia di percosse, di marginalità, di miseria materiale e spirituale.

Da questi presupposti, gli inevitabili sviluppi che prevedono, in una tragica inevitabile sequenza, l’abbandono, il ricovero in un istituto religioso, la durezza di un’istituzione totale, la violenza di una reclusione inumana, in uno scantinato in compagnia dei topi, poca luce che proviene da una grata in alto, dalla quale le cade addosso l’orina di chi le infligge quell’ulteriore umiliazione. Poi, fatalmente, la brutalità di un amplesso di rapina, la fatale violenza di uno stupro, una gravidanza lungamente inconsapevole, tentativi di aborto clandestino, lo stupefatto dolore di un parto vissuto – come il resto – in solitudine assoluta, la morte del bambino, l’arresto, il carcere, l’ergastolo, il linciaggio che pone fine a un’esistenza segnata ab origine.

Riassunta in questi termini, sembra il resoconto di un atroce disegno teatrale, a sua volta resoconto di un’esistenza tragica nel suo squallore, ma non è così: un testo brillantemente organizzato e, soprattutto, un’interpretazione magistrale, giocata su un’ininterrotta transizione linguistica e mimica tra registri diversi, una lucida ironia interpretativa che accompagna lo spettatore sulle montagne russe di uno svolgimento oscillante tra i toni della farsa e quelli della tragedia, che si susseguono per un’ora senza soste, nella variopinta messa in scena di personaggi che si assommano a quelli della protagonista, connotati ciascuno da differenti cadenze di dizione, da posture e atteggiamenti in grado di cogliere i caratteri distintivi dei diversi soggetti.

Sara Alzetta si destreggia anche nella molteplicità dei ruoli, offrendo voce, espressione e gestualità alla piccola folla di personaggi, che vanno dal topo disilluso, alla suora rancorosa, al camionista calabrese rude e violento, al cane, a Dio onnipotente, al giudice severo, a una strepitosa Madonna dell’alta società che si manifesta leggiadra sensuale e ammiccante, profetizzando alla disgraziata Maria la gravidanza, in un’Annunciazione alla rovescia in grado, essa sola, di riscattare – se ce ne fosse bisogno – un’intera serata a teatro. Ma l’intensa emozione in cui il carisma scenico di Sara Alzetta trascina a viva forza gli spettatori non ha certo bisogno di alcun riscatto.

È teatro di altissimo lignaggio, ricco di umanità, sapido di compassione (detta nel senso latino di patire cum), denunciante con vigore un’ingiustizia e una predestinazione intollerabili, la violenza – socialmente accettata – che si consuma a danno dell’anima e dello stesso corpo di donna cui la Alzetta presta il suo, mortificato dentro una camicia lacera, abbottonata male, chiusa da una spilla da balia.

In un solo punto la cosa non è riuscita: il testo richiedeva per protagonista una donna brutta, e a conseguire sulla scena quel risultato da parte di una Sara Alzetta in splendida forma non è bastata nemmeno la sua non comune sapienza attoriale.