Emmanuel Macron, scrittore

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Dai principi enunciati all’effimero e transitorio degli interessi contingenti

di Fulvio Senardi

 

Come pochi sanno la stella del presidente francese Emmanuel Macron sembrava inizialmente potersi alzare nei cieli della letteratura. In una intervista a Jérôme Garcin del Nouvel Observateur del 2017, Macron ha confessato che, a 16 anni, il suo cuore batteva per le Belle Lettere. Sua moglie Brigitte, di cui è stato prima studente e poi marito, “ha condiviso e poi incoraggiato questa vocazione”, rivela il Presidente. E poi, concludendo, “ho scritto dei romanzi e anche delle poesie”. Del resto, anche nell’intervista TV concessa all’ossequioso Fazio, Macron ha parlato dei suoi amori letterari, italiani per omaggio al Paese dell’interlocutore: Eduardo De Filippo. Non stupisce dunque di trovare in libreria Rivoluzione, a sua firma.

Giovane di grande successo negli studi, laureato in filosofia, corsista dell’ENA, la scuola dei talenti della pubblica amministrazione, poi funzionario presso la banca d’affari Rotschild, quindi consigliere di Holland e, successivamente, ministro nel governo Valls, Macron fonda nel 2016 il movimento di ispirazione liberale En marche e dà alle stampe il libro che dal 2017 possiamo leggere in Italiano. Ma completiamo la storia dell’enfant prodige: nel 2017 schiva le primarie della sinistra e si presenta alle presidenziali ottenendo l’appoggio di molti capi di governo stranieri, fra i quali Angela Merkel e Matteo Renzi. Vince il ballottaggio con il 66 per cento dei voti validi e dal maggio del 2017 è il più giovane presidente nella storia della Repubblica Francese.

Ma perché parlare oggi di questo libro, vecchio di due anni e quindi, considerando la vita media dei libri sugli scaffali delle librerie, pronto per il macero? Per la semplice ragione che dopo due anni di presidenza, molte affermazioni del manifesto elettorale di Macron – probabilmente steso da un ghost-writer, ma si può pensare, considerando le ambizioni letterarie del Presidente, sotto sua attenta supervisione – acquistano finalmente un senso concreto. Servire il Paese, riconciliare una Francia lacerata da fratture geografiche (la città e le campagne, il centro e le banlieus) e sociali (“dare una risposta alle nuove disuguaglianze”, p. 123), rispondere al bisogno di sicurezza (si cita infatti l’“operazione sentinella” che, all’indomani degli attentati parigini del gennaio 2015, ha visto il dispiegamento sul territorio di 15.000 uomini fra militari e poliziotti), rimodellare la Francia (informatizzazione, sensibilità e pratiche ecologistiche, risposte positive alla sfida della globalizzazione, ecc.) nella “fase terminale del capitalismo mondiale, il quale, giusto, a causa dei suoi eccessi manifesta la propria incapacità di sopravvivere” (62).

Questi alcuni dei temi, per essere sintetici: com’è ovvio, il testo presenta le cose in modo sufficientemente ottimista e articolato (e non senza un briciolo di “rosso”) per non scontentare nessuno, o quasi, fungere da elastica piattaforma programmatica e garantire uno zoccolo elettorale diciamo di centro-sinistra, di cui Macron si erge a paladino (contro i Repubblicani al centro-destra, il Fronte Nazionale a destra, la “France insoumise” all’estrema sinistra) in vista delle elezioni che avrebbe vinto di lì a poco.

Ciò che interessa maggiormente approfondire per il lettore italiano è invece la prospettiva europea del programma macronista, che ci tocca da vicino in quanto partner della Francia in un progetto europeo che “si fondava su tre promesse: di pace, di prosperità, di libertà. Un progetto, spiega Macron, profondamente francese“ (200). Eppure l’Unione ,“soffocata dalle procedure” (203), ha disamorato. “Per i francesi la frattura si è prodotta nel 2005, l’anno in cui, attraverso il referendum, si sono espressi con un no”, verso un’Europa diventata “troppo liberista” (203).

Proposte? Un bilancio unico dell’Eurozona, con un solo ministro delle Finanze, più coraggio a livello di difesa e sicurezza, maggiore democrazia (“non lasciamo ai demagoghi e agli estremisti il monopolio della popolazione e delle idee” – 215), eliminazione del diritto di veto garantito ai singoli Paesi, anche a costo di costruire “un’Europa differenziata, a più velocità” (216). Ma sotto questo messaggio di apertura e buon senso corre un altro filo rosso, più solido e coerente: l’amore per la Francia e l’orgoglio della “francesità” (francité). Tanto forte da minare quei valori europei di cooperazione, di buon vicinato, di “fraternité”, senza i quali il Continente continuerà ad essere un contesto di aggressività e litigi? Ascoltiamo Macron: “Noi non siamo un paese come gli altri. Non possiamo, in questi tempi così difficili, prendere una strada diversa da quella che è la nostra, a meno che non vogliamo … andare fuoristrada. La ricchezza che dobbiamo difendere è il segno distintivo della Francia, la sua virtù, il messaggio a misura della storia. È fare in modo che nei momenti decisivi, sui temi di fondo, il suo messaggio sia ancora ascoltato nel mondo. Perché è la voce che dice no a tutti i comportamenti che non servono la causa dell’uomo” (170).

Parole grosse: i valori della Francia (scendendo dal metafisico al concreto: i suoi interessi politici, economici, ecc.) rappresentano, di per sé, “la causa dell’uomo”. Si tratta ovviamente di un impegno forte, ma anche profondamente ambiguo, perché contrabbanda sotto il segno dell’universale l’effimero e transitorio degli interessi contingenti. Un’ambiguità che è emersa in modo plateale nella gestione francese dei rapporti con l’Italia. Passi l’attacco a freddo del Governo francese contro la gestione salviniana del problema dell’emigrazione (Gabriel Attal, politico macronista: “la posizione del governo italiano fa vomitare”): politica esecrabile ai miei occhi, ma ciò che conta replicata dalla Francia con respingimenti a Ventimiglia e “ricollocamento” forzato di migranti entro il territorio italiano (così la polizia italiana nell’ottobre 2018: “migranti scaricati in Italia da un furgone della Gendarmerie); passi l’attacco di Moscovici (politico europeo o francese?) alla politica economica del Governo gialloverde (che fa acqua, anzi fa debito, da ogni parte, non lo si nega), ma che rientra non appena la Francia si trova costretta, nella crisi dei “gilets jaunes”, a varare anch’essa misure in deficit. Ma la Libia? Leggiamo ancora Macron: “L’azione da condurre in Libia dovrebbe essere un’azione diplomatica europea, in consonanza con alleati regionali”. Benissimo, del tutto nello spirito della cooperazione europea. Ma i fatti? Tralasciamo il problema della destabilizzazione della Libia provocato dall’attacco franco-inglese contro Gheddafi, che ha trasformato un Paese sostanzialmente stabile in un teatro di guerra permanente, senza nessun passo avanti, per altro, quanto ai diritti umani. Ma l’appoggio di Macron al ras di Tobruk Haftar contro il presidente riconosciuto dall’ONU Sarraj, non ha forse un pungente odore di petrolio e il significato di una sfida anti-italiana? Gli interessi strategici francesi e le ambizioni di espansione petrolifera di Total servono anch’essi “la causa dell’uomo”? O più prosaicamente la causa dell’homme français? E che dire del doppiopesismo dei cugini d’Oltralpe quanto al tema delle acquisizioni di gruppi e società? Lo shopping francese in Italia è stato di 52 miliardi in dieci anni (185 operazioni), scriveva all’inizio del 2017 Il Sole24ore, contro le 97 italiane per una valore inferiore agli 8 miliardi. I tentativi di operazioni più ambiziose (Fincantieri-STX, Fca-Renault) vengono bloccato in nome dell’ “interesse nazionale”, o falliscono per motivi indecifrabili. Forse perché la Francia, quanto a orgoglio nazionale e autostima “non è un paese come gli altri”?

Passo la parola al giornalista Marco Scafati che ironizza sulla “pancia patriottica di una paese pronto a vestire con convinzione i panni dell’europeista quando va a fare compere, salvo poi ricordarsi di essere esperto in barricate quando qualcuno bussa alla porta per l’argenteria di famiglia”. Concludiamo: finché, parafrasando Orwell, tutti i paesi sono uguali ma alcuni sono più uguali di altri il futuro d’Europa, così come lo hanno sognato i Padri fondatori, resta veramente appeso a un filo.