Ricordando Predrag Matvejevic

| | |

Prima di salutarci, mi lasciò in regalo una sentenza inappellabile: “Dobbiamo scrivere prima che cominci a tremarci la mano…”

di Juan Octavio Prenz

 

Incontrai Predrag Matvejevic per la prima volta verso la fine del 1964, nel mio primo soggiorno jugoslavo, a Zagabria, dove mi fu presentato dal cineasta Krsto Petanjek, con il quale collaboravo allora nella sincronizzazione di alcuni documentari. Sebbene fossimo coetanei, Predrag mostrava quel volto, quei gesti e quell’entusiasmo da adolescente ribelle (e ribelle con una causa), che sarebbe stato il segno distintivo della sua vita. E poi, la conversazione, quasi un rituale, che con lui diventava una vera e propria festa, una forma, oggi ormai dimenticata, di condividere il mondo. Già allora era solito dialogare, come un prediletto, con Miroslav Krleza, il grande scrittore croato del secolo scorso, e aveva cominciato a far parte del celebre gruppo della rivista Praxis, dal forte accento critico, che proclamava un socialismo dal volto umano. Erano gli anni Sessanta, nei quali, sul piano politico e umano, ogni utopia sembrava d’imminente realizzazione. L’entusiasmo di Matvejevic era, tuttavia, accompagnato da una lucidità implacabile che, lontana da qualsiasi retorica populista, s’incanalava in una solida lettura del passato e in una critica spietata di qualsiasi ingiustizia, passata o presente che fosse. Erano i tempi degli scrittori impegnati e Predrag Matvejevic lo era in maniera radicale, la qual cosa lo avrebbe portato a criticare, per le loro pratiche, personaggi ideologicamente affini a lui, e viceversa, a difendere, quando lo riteneva giusto, altri lontani dalle sue concezioni, come sono stati Franjo Tudjman e Vlado Veselica, per citare solo due nomi. Non era un intellettuale organico, ancora meno un pamphlettista, bensì un critico acuto della società del suo tempo, che vedeva sempre in movimento.

Poi, circostanze fortunate ci avrebbero fatto incontrare non solo a Belgrado, ma anche in altre città jugoslave. Ricordo in particolare una coincidenza estiva a Dubrovnik, dove ci incontravamo quotidianamente nella Grandska Kafana, il caffè cittadino. Quando lui veniva a Belgrado, trovavamo sempre un momento da condividere all’Associazione degli Scrittori o al Caffè Majestic, qualche volta assieme a Danilo Kis, il cui spirito critico sapeva essere tanto mordace quanto quello di Predrag. È ovvio ricordare con quale soddisfazione io li ascoltassi discutere, e la mia comoda propensione ad ascoltare mi trasformava – lo dico senza pudore – in uno spettatore privilegiato. Degli incontri belgradesi, ne ricordo uno, in particolare, con Predrag e Vasko Popa al ristorante Madera, iniziato a mezzogiorno con un pranzo, proseguito nel pomeriggio tra infinite conversazioni, per finire poi con cena e dopocena. Alle parole impetuose di Predrag seguivano quelle misurate di Vasko, in un vivace e un andante che si alternavamo senza spazi per le ovvietà. Perché Predrag era, tra le tante cose, un vero artista della conversazione. Se, come aveva supposto Marconi, le voci non si perdono nello spazio e si potesse fabbricare un dispositivo che le raccogliesse tutte, anche queste conversazioni sarebbero meritevoli di comparire nell’opera omnia di Predrag Matvejevic.

La frammentazione della Jugoslavia fu un duro colpo per lui. La sua difesa della Jugoslavia, quella dell’autogestione, le cui lontane radici potevano trovarsi in quell’incipiente esperienza della Comune di Parigi, gli valse la critica e persino l’odio dei diversi nazionalismi delle Repubbliche che componevano la Federazione. I media occidentali lo hanno etichettato, con fretta e comodità, come un dissidente, quando, in realtà, la sua critica non andava all’autogestione, bensì a coloro i quali, in nome della medesima, la corrodevano. In ogni caso, non era un dissidente dell’esperienza autogestionaria, bensì di alcune pratiche o errori che, qui o là, la smentivano. Sentiva la sua Jugoslavia come un unicum, prodotto non di una somma politica, a livello di superficie, di diverse radici, bensì di un’unica radice a livello profondo. Si vantava, anche, del fatto che la parola Jugoslavia fosse stata usata per la prima volta in Herzegovina, la sua terra natale.

Voglio ricordarlo anche per il suo valore umano, per il rispetto che coltivava verso gli amici, per la sua cura degli affetti, per quel sentimento che faceva, nel caso nostro, che non solo considerasse me amico suo, bensì che annoverasse tra gli amici anche mia moglie e le mie figlie. Quando ritornammo in Jugoslavia, nel nostro secondo soggiorno, nel 1975, a causa delle persecuzioni politiche che avevamo subito in Argentina, Predrag approfittò di un suo viaggio a Belgrado per farci visita e offrirci il suo appoggio. È un gesto che non dimentico. A un certo punto, canticchiò una canzone russa per le mie piccole figlie. Prima di salutarci, mi lasciò in regalo una sentenza inappellabile: “Dobbiamo scrivere prima che cominci a tremarci la mano…”

Lo vidi per l’ultima volta a Zagabria, un paio d’anni fa, dove, in compagnia del poeta Milan Rakovac e del professor Karlo Budor assistette fino alla fine, come uno spettatore in più, a un incontro di poeti croati e triestini, organizzato dal PEN croato.

Forse, in questo momento, ci resta da ricordare, come un calmo omaggio, una frase della commovente lettera che lo stesso Predrag inviò a Izet Sarajlic, in piena guerra, quando seppe della morte delle due sorelle del poeta bosniaco: “Ci sforzeremo di non piangere, non è bene che vedano piangere i nostri occhi”.

Caro Predrag, continuerai a vivere nella tua opera. Quanto a noi, preferiamo pensare che abbiamo solo smesso di vederti, in un tempo e in uno spazio che ancora perdura.