Il mezzo secondo storico

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Ciò che noi chiamiamo decisione consapevole è sempre «preceduta da mezzo secondo di elaborazione inconscia»

di Francesco Carbone

 

«L’individuo. Questa nozione tipicamente occidentale, che ha avuto nella nozione platonica di “anima”, rivisitata dal cristianesimo, il suo atto di nascita, ha nell’età della tecnica il suo prevedibile atto di morte.»

(Umberto Galimberti, Pische e techne)

 

 

Il signore che dice «Io», per dichiararsi autore della Divina Commedia o per protestare contro una multa, è come se dicesse «Dio»: mette in campo un’idea che si potrà come minimo trovare problematica. Dante almeno è stato uno di quelli che ha rinunciato al funesto pronome, dichiarando autori della Commedia non «Io» (Inferno, II, v. 32) ma «cielo e terra» (Paradiso, XXV, v. 2). Con lui almeno tutta la buona letteratura, che sa da sempre che senza ispirazione di Muse non va da nessuna parte: «l’autore non può esserci, giacché (…) presuppone che ci sia un uomo fermo e che le parole, docili satelliti senza misteri, gli girino attorno, ed egli le catturi e disponga in un sistema verbostellare che chiama “la mia opera”. Risibile, risibile» (Giorgio Manganelli, Pinocchio: un libro parallelo, Adelphi 2002).

 

La Breve storia dell’inconscio di Frank Tallis (Il Saggiatore, 2019), psicologo clinico e scrittore inglese, autorizza a ragionare su quest’ambito di questioni: tra le più radicali e – sarebbe l’espressione di Freud – mortificanti per il cosiddetto homo sapiens: si può dire per esempio che qualcuno abbia scritto quest’articolo, e che qualcun altro lo stia leggendo? – Qualcuno a cui poter attribuire un’identità, una volontà consapevole e un fare responsabile: un «Ego», insomma, dotato di libero arbitrio e quindi degno d’infamia e di galera nel caso commettesse un crimine.

La risposta per Tallis è no, non si può dire: «c’è motivo di arrabbiarsi per il comportamento di un ladro tanto quanto ce n’è per la posizione di una pietra»: la pietra dunque per dire un’identità che nulla potrà modificare: per certificare un destino inscritto in chissà cosa: in buonissima parte, diciamo il 98-99%, nel DNA (Eduardo Boncinelli, Il cervello, la mente e l’anima Mondadori 2000).

 

In una progressione che comincia dalle piccole percezioni di Leibniz e arriva agli esiti più attuali delle neuroscienze, Tallis ci accompagna con cautela ed entusiasmo ad affrontare qualcosa che istintivamente rifiutiamo: «il nostro comportamento è determinato da processi inconsci; il Sé è un epifenomeno, e una comoda invenzione, che ci permette razionalizzazioni a posteriori per “spiegare” il nostro comportamento; le scelte vengono esercitate in assenza di consapevolezza».

Per restare alla metafora minerale, l’Io, ma questo già per Freud, è l’illusione di una pietra che ama credersi libera di poter diventare centravanti della Juventus, Placido Domingo, Marilyn Monroe o Einstein: l’Io umano è dunque una pietra ancora imperfetta, un sasso mancato, poiché ha bisogno di illudersi di poter diventare altro e di meglio per sopportare il suo destino di ciottolo gettato (Martin Heidegger, Essere e tempo) tra infiniti ciottoli a lui uguali: ben altro stoicismo dimostrano i gatti, gli asteroidi e, ovviamente, i computer.

 

Ecco un po’ di prove.

Gli esperimenti condotti da Benjamin Libet negli anni ’60 a San Francisco dimostrarono che ciò che noi chiamiamo decisione consapevole è sempre «preceduta da mezzo secondo di elaborazione inconscia»: benché Libet fosse riluttante a ricavarne una qualunque conseguenza filosofica, fu inevitabile domandarsi dove fosse finito il libero arbitrio, se le nostre decisioni vengono cucinate nel primordiale sistema limbico (esperimenti di Wilder Penfield a Montreal già negli anni ’30) e, solo dopo quel cruciale mezzo secondo, servite bell’e pronte alla nostra consapevolezza: «inoltre, dal momento che ci vuole almeno mezzo secondo per diventare coscienti degli stimoli, la coscienza è costantemente a seguito del tempo reale. Tutti noi viviamo nel passato»: l’illusione di decidere in questo momento qualcosa è la stessa di chi vede una stella in cielo e crede che splenda adesso, quando in realtà è un baluginio di luce di chissà quanto tempo fa.

In quell’ombroso mezzo secondo che anticipa e determina «la comparsa dell’identità», si concentra (coincidenza di filogenesi e di ontogenesi secondo la legge di Haeckel) la storia dell’intera evoluzione umana. E questo quando possiamo prendercela comoda: se invece dobbiamo schivare all’improvviso qualcosa o togliere la mano da un oggetto ustionante, sarebbe esiziale affidarsi al mezzo secondo necessario per avvertire la nostra mente: lì scatta fulminea la via neurale che collega subito il talamo all’amigdala, saltando la corteccia cerebrale, che è appunto quella parte recentissima del cervello che ci fa dire «Io», interrogarci sull’essere o non essere, ecc.

Quando scappiamo di fronte a un pezzo di corda che c’è sembrato un serpente, riattiviamo «una memoria inconscia che ha circa duecentoventiquattro milioni di anni». Produrre memorie inconsce è la nostra vocazione vitale: i dispositivi di cui oggi disponiamo (TAC, EEG, ecc.) misurano al millisecondo l’attivarsi di tutti i nostri possibili processi decisionali: ogni volta che impariamo qualcosa di nuovo, per esempio a guidare un’auto, vediamo che con la pratica quella somma di azioni complicate diventa talmente ovvia da poterla fare senza più pensarci: «l’abituale tendenza del cervello ad abbreviare ogni cosa» e a trasformare «i compiti in abitudini» ci dà però sulla nostra ragione un punto di vista ironico e inquietante: il pensiero sarebbe una sorta di disturbo provvisorio, uno sforzo eccezionale da dedicare solo a cose strettamente necessarie, e cioè nuove, eccitanti o minacciose. Non diceva Groucho Marx che desiderare di sedurre la propria moglie sarebbe come per un cacciatore voler sparare a un’anatra già impagliata?

Pensare stanca. Essere una persona onesta già riduce la fatica. L’unico uomo infatti che deve pensare sempre è il bugiardo, obbligato com’è allo sforzo continuo di non tradirsi (W. R. Bion, Gli elementi della psicanalisi, 1973): genio concesso solo a chi è stato avvantaggiato da notevole intelligenza e sfacciataggine (Richard Dawkins, Il gene egoista, 1976), e dal fatto che si dà da fare in un mondo di distratti dalla memoria corta.

 

Dato il predisporsi di qualunque decisione in quell’atavico mezzo secondo, «il ruolo della coscienza non consiste nel dare inizio all’azione, ma nel decifrarne il senso»; e forse, più che di decifrazione, si tratta di un tentativo spontaneo di darsi un senso a posteriori: rispetto alle nostre azioni, siamo come criminali che creano incessantemente alibi per coprire delitti che avrebbero fatto comunque. Schopenhauer, maestro filosofico di Freud, direbbe che l’aveva già scritto lui.

Questa constatazione a cui sono così arrivate le neuroscienze sull’esistenza empirica dell’inconscio ha un che di ironico: dopo diversi decenni a negarlo, come faceva anche la psicologia comportamentista americana, con le ricerche di Penfield e di Libet, lo si trovò nelle zone cerebrali più profonde e più antiche. Grazie agli esperimenti del potenziale-evento.correlato (ERP), s’iniziò a prenderne le misure e a verificarne la manipolabilità: cosa già ampiamente sospettata, negli anni ’50, con i primi studi delle percezioni subliminali.

Trovato che l’inconscio appartiene «al mondo fisico tanto quanto il granito e il sole», tornò interessante Freud, non più visto come l’iniziatore di una pseudo-scienza romantica e inverificabile. Questo appunto solo quando l’inconscio fu recepito non come una mera «ipotesi necessaria» (Sigmund Freud, Metapsicologia), ma come una cosa con una sua fisica evidenza; solo allora ha ripreso il suo posto – un posto perfino più dominante – nella geografia psichica dell’uomo: c’è voluto dunque un secolo, dalla pubblicazione dell’Interpretazione dei sogni (1899), perché si compisse, almeno nelle élite scientifiche, quella che proprio Freud aveva chiamato la «terza mortificazione» dell’uomo dopo quella di Copernico che ci caccia in una delle infinite periferie del cosmo e quella di Darwin che ci fa figli delle scimmie.

 

La differenza delle neuroscienze rispetto a Freud è essenziale su un punto: mentre per il fondatore della psicanalisi l’inconscio è perverso, polimorfo e incapace di essere logico e conseguente, quello delle neuroscienze è, come abbiamo visto, «molto intelligente». Per questa concezione, furono fondamentali negli anni ’80 i confronti con il computer, che come noi ha «un sistema interattivo di unità sensibili che agiscono in parallelo», capace cioè di fare molte cose nello stesso tempo: mentre guidiamo un’automobile, ascoltiamo la radio, guardiamo le gambe della signora a cui abbiamo dato un passaggio con i pensieri che si possono immaginare, cambiamo marcia, rispettiamo il codice della strada e addirittura ci accendiamo una palliativa sigaretta, in un beato umano multitasking quasi del tutto inconscio, elaborando una quantità d’informazioni sull’ambiente, il nostro corpo, la macchina, la signora accanto ecc. che «superano inevitabilmente la capacità della nostra coscienza», la quale, essendo «un canale a capacità limitata», non può tenere presenti più di sette cose alla volta (George A. Miller, The Magical Number Seven, Plus or Minus Two: Some Limits on Our Capacity for Processing Information, 1956).

 

Tallis più volte si limita ad avvertirci che queste conoscenze, che farebbero perdere milioni di voti alle prossime elezioni, implicano «sconcertanti questioni filosofiche»; in realtà sono problematiche antiche quanto la filosofia stessa, diventate ardue, per non dire irrisolvibili, solo da un certo momento in poi: da quando il cristianesimo ha postulato la libertà come la condizione imprescindibile che farebbe dell’uomo se stesso. Ma non fu sempre così; non fu così per esempio per gli antichi Greci. Ulisse non torna da Penelope perché ha scelto di rinunciare alla stupenda Calipso dopo una qualche crisi di amletica indecisione: torna perché questa è l’ananke (il destino) a cui è tenuto essendo re di Itaca e marito di Penelope, né altro potrebbe fare. Per un greco, «nessuno è libero, tranne Zeus» (Eschilo, Prometeo incatenato), e in realtà neanche lui.

Poi siamo diventati tutti cristiani, con i conseguenti svantaggi e vantaggi: il culto dell’individualità, delle libertà personali, della responsabilità di ognuno per quello che fa e la speranza in un futuro messianico. Che il tramonto del concetto di libertà abbia «enormi implicazioni per i nostri codici morali ed etici» è dunque evidente.

Tallis si ferma subito dopo averci ricordato che il ladro è innocente di essere un ladro: da dove venga il ladro, come chiunque altro, resta quello che Karl Jaspers chiamò individuum ineffabile. Restano insomma sospese le questioni filosofiche, ma questa è la prova che il libro di Tallis è un libro onesto, capace di provocare molte più domande di quante risposte cerchi di fornirci. – Inevitabilmente, resta sospesa la questione fondamentale delle scienze della mente: anche se arrivassimo a sapere tutto del cervello, e magari a scoprire che davvero non c’è nessun «fantasma nella macchina» (Gilbert Ryle, The Concept of Mind, 1949), nessun «Ego» cartesiano che possa dire «Io sono»; anche se arrivassimo a quel punto, non sapremmo ancora molto di noi che abbiamo nella testa quell’encefalo, perché, per quanto vertiginosamente complicato, «un cervello non è abbastanza simile a un essere umano» (Ludwig Wittgenstein, Ricerche filosofiche, Einaudi 1974). Lo studiatissimo cervello di Einstein, sezionato in 240 parti e conservato all’università di Princeton, non è Einstein. Venendo ridotto a cosa per essere oggetto delle ricerche neuroscientifiche, i meccanismi neurocerebrali di Einstein potranno essere anche perfettamente spiegati, ma non per questo quell’uomo sarà compreso (Karl Jaspers, Psicopatologia generale, 1913).

Vale quindi anche per le neuroscienze l’avvertimento che Jacques Lacan diede ai giovani che volevano diventare analisti: «Nella via della sua formazione, l’analista può entrare solo riconoscendo nel proprio sapere il sintomo della propria ignoranza» (Scritti, Einaudi 2002).