Una storia adriatica di Cristiano Caracc

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Un romanzo storico di Cristiano Caracci rievoca i tempi della Restaurazione in quello che era stato il Golfo di Venezia

di Fulvio Senardi

 

Ci sono autori ai quali si ritorna volentieri; promettono un intrattenimento intelligente, con l’aggiunta di quel quid un po’ sfuggente, a volerlo precisamente definire, ma ben concreto sul piano emozionale, che è costituito dal piacere estetico. Mi riferisco a Cristiano Caracci, avvocato udinese che ha fatto della scrittura narrativa il suo secondo mestiere. Tra le penne migliori del Nord-est, ha dato da poco alle stampe, per i tipi dell’udinese Gaspari, Ottocento. Il Congresso di Vienna tra Venezia e Ragusa. L’ambientazione intreccia l’Adriatico e il Mediterraneo orientale, secondo un’inclinazione consueta nel nostro scrittore, e si focalizza sulle vicende di Ragusa-Dubrovnik, negli anni della perdita dell’indipendenza, quando il Congresso di Vienna, contravvenendo ai suoi stessi principi, lungi dal ristabilire i confini dell’Europa ancièn regime, fece il gioco delle grandi potenze, in particolare dell’Impero d’Austria, il più vorace degli imperi continentali. Metternich, grande timoniere della politica estera viennese, pose allora le basi del predominio austriaco in Italia e in Adriatico, confermando il trattato di Campoformio che nel 1797 aveva fatto di Venezia proprietà imperiale, e conglobando nei possedimenti dalmati della corona asburgica anche la remota Ragusa.

La perdita dell’indipendenza, dopo secoli di gloriosa autonomia, in difficile equilibrio tra Venezia e la Sublime Porta, era stata inizialmente opera dei francesi che prendono possesso della città nel 1806, assegnandola, due anni dopo, al Regno d’Italia, retto dal figlio di Giuseppina, il viceré Eugenio di Beauharnais e, successivamente, alle Province illiriche. Il tema aveva già in precedenza, e più volte, sollecitato la fantasia dello scrittore (La luce di Ragusa, 2005; Il tramonto di Ragusa, 2015), appassionato cronista, a metà strada tra storia ed invenzione, di vicende dimenticate dell’area mediterranea, che trasforma in materia di racconto e popola di caratterizzanti personaggi di fantasia, attento però ad aderire, nei tratti fondamentali di cultura e di storia, alla realtà documentata della repubblica di San Biagio, salvo la non piccola “licenza” di italianizzare un mondo che era, a quell’altezza cronologica, quasi integralmente slavo. Del resto, le poche volte in cui l’oggettività storica viene trattata con troppa disinvoltura potranno anche dare fastidio a qualche più attrezzato degustatore ma non, credo, alla maggioranza dei lettori.

Caracci non ama il romanzesco inteso come garbuglio di vicende intricate sul ritmo scandito da avventurosi colpi di scena, né indulge in scavi psicologici troppo sottili. La sua “magia” è squisitamente evocativa, da paesaggista che alterna tinte vivaci a malinconici giochi di penombre. Ai personaggi attribuisce quello stesso amor de lonh che ai navicanti e’ntenerisce il cuore e che lui stesso, immagino, deve aver provato nei suo viaggi di moderno esploratore sull’orlo tra terra e mare, sondando i margini dei “domini da mar” della un tempo gloriosa Serenissima, che ha lasciato tracce di lingua e di cultura in tutto il Mediterraneo orientale.

«Il fascino del navigare e della natura d’intorno», così la riflessione di uno dei personaggi del libro, «quasi incoraggiavano a dimenticare la responsabilità della missione e chi di noi lo poteva, guardava lontano, dove il mare scompariva nel mare; durante le ore di luce, dall’alba al tramonto, e in quelle di buio quando ci incantava la nostra scia luminosa e l’increspare di rapide onde lontane baluginava al chiaro di luna, la gente taceva ad ascoltare la voce della nave dell’acqua e del vento e allora quei suoni irripetibile incoraggiavano gli uomini a cantare sottovoce le loro canzoni di marinai dell’Adriatico orientale» (p. 21). Una sintassi, come si vede, elegante ma frondosa che obbliga ad una fruizione attenta, ad un centellinare concentrato (anche perché abilmente anticata, come sa fare un frequentatore di pandette), un po’ fuori stagione (grazie Caracci!) in un’epoca di messaggini e faccine, di formule – in pubblicità e in politica – sloganistiche e raffazzonate. Cafonerie. Ottocento si articola in tre blocchi narrativi, collegati da alcuni ben calibrati nessi interni (i luoghi, i personaggi, le navi), a partire dal Congresso di Vienna, che danzava ma pure tramava, per giungere agli anni del rapido declino della città adriatica quand’essa, ormai terra di confine dei possedimenti imperiali e spogliata dell’antica opulenza marinara, comincia a patire il male dell’emigrazione: non pochi dalmati si incanalano (e si incanagliscono) nella grande fiumana (più di quattro milioni negli ultimi tre lustri della Doppia Monarchia) che dall’Impero andava a sfociare soprattutto oltre oceano, viaggi senza ritorno e che avevano in primo luogo a Trieste una delle valvole di deflusso.

In Ottocento, si parte dunque da Ragusa, come da ogni regione impoverita, ora per altri angoli del cosmo mediterraneo (Istanbul) ora addirittura verso le lontane Americhe, ribaltando il bisogno in intraprendenza. E si parte con il cuore che sanguina per le ferite inguaribili inferte dal pungolo della nostalgia. Eppure, dovunque si vada, la città dalmata e il suo mare, le antiche abitudini e i tradizionali mestieri rimangono in cima ai pensieri dei partenti, per riprendere non di rado sostanza nel mondo nuovo che accoglie gli espatriati, come nel caso di Francesco, di cui racconta Caracci, che esporta in California l’arte di forgiare gioielli in filigrana d’argento e d’oro appresa nella bottega dello zio raguseo.

Apre e chiude il libro la voce di Lorenzo Natali (e i Natali furono in effetti un’illustre famiglia patrizia della Ragusa sette-ottocentesca), uno dei numerosi personaggi ai quali l’autore trasferisce – in assenza di un narratore esplicito – la responsabilità di sviluppare il racconto (pur senza differenziarli, e questo ne smaschera l’identità fittizia, sul piano espressivo). «La casa di mio padre da anni è abbandonata. […] Allora, con malinconia e rimpianto, ricordo il passato e le occasioni» (p. 11), esordisce Natali, iniziando a tessere la tela che l’ultima pagina completa: «A sera, intravedo dall’altra parte del mandracchio il comandante del trabaccolo Venera; […] mi appare nel tremolio di un’aria umida e, preso da meraviglia, gli grido “Giovanni, Giovanni mio”; quello, voltatosi verso di me, “paron Lorenzo”, risponde; forse, forse risponde e viene la notte» (p. 124).

Cristiano Caracci

Ottocento.

Il Congresso di Vienna

tra Venezia e Ragusa

Gaspari, Udine 2022

  1. 129, euro 17,50