L’urgenza di raccontare un presente scomodo

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di Alan Viezzoli

 

Storicamente il Festival del Cinema di Berlino – la cui 69ª edizione si è svolta dal 7 al 17 febbraio 2019 – è meno legato al “glamour” a tutti i costi e alla star di punta che possa animare il tappeto rosso. Per questo motivo può permettersi una selezione più restrittiva e mirata, con titoli che, secondo gli organizzatori, soddisfano una ben precisa idea di Cinema. Tale componente quest’anno si è potuta riscontrare nell’esiguo numero di film in concorso: solo 16, a differenza dei 21, in media, degli altri Festival (in realtà i film in gara avrebbero dovuto essere 17 ma a Festival in corso, è stato comunicato il ritiro di One Second del cinese Zhang Yimou; ufficialmente per difficoltà nella post produzione anche se è più probabile che la censura ci abbia messo lo zampino, vista anche la dichiarazione che la giuria ha letto a inizio cerimonia di premiazione).

Volendo provare a trovare un filo rosso che unisca i film del concorso, questo potrebbe essere un certo sguardo sui problemi civili degli anni in cui stiamo vivendo. Infatti in questa categoria si inserisce benissimo il film che – a sorpresa – ha vinto l’Orso d’oro: Synonymes dell’israeliano Nadav Lapid. La storia è quella di Yoav, un ragazzo israeliano che si trasferisce a Parigi con l’idea di cancellare completamente il suo passato. Per farlo si impone di non parlare più ebraico, di migliorare il suo francese già buono e di integrarsi al meglio. A dispetto della tematica, però, il film convince poco: troppo prolisso, troppo costruito a tavolino per scandalizzare e, forse, troppo schierato anti-immigrazione per essere davvero un buon prodotto.

Molto migliore il premio per la miglior regia, assegnato a François Ozon per Grâce à Dieu, che parla della pedofilia all’interno della Chiesa cattolica, limitando lo sguardo all’osservazione dei fatti e senza mai attaccare la religione in quanto tale. Film che fa il paio con God Exists, Her Name Is Petrunya della regista macedone Teona Strugar Mitevska, purtroppo tornata a casa a mani vuote. Anche in questo caso si parla di religione ma senza alcun intento blasfemo: la regista, al contrario, è molto rispettosa della fede ma punta il dito sul ruolo della donna all’interno di una istituzione che, in certi riti e per certe cariche, considera ancora il sesso femminile come il male assoluto.

Entrambi i premi per la recitazione sono andati a So Long, My Son del regista cinese Wang Xiaoshuai. Il film, che racconta la saga di una famiglia cinese dalla Rivoluzione culturale degli Anni ‘70 fino ai giorni nostri, risente troppo della scelta artistica di procedere per continui flashback e flashforward i quali rendono troppo cerebrale la visione quando, in realtà, non ce ne sarebbe alcun bisogno e, al contrario, il film andrebbe seguito linearmente e con il cuore.

Questo filo rosso dell’attualità si dipana anche con un ottimo film che, purtroppo, non ha trovato un riconoscimento. Si tratta di A Tale of Three Sisters del regista turco Emin Alper. In questo il grande centro abitato è visto come una salvezza per le tre sorelle protagoniste del film le quali, mandate dal padre in città nella speranza di un titolo di studio, un lavoro e una vita migliore, tornano con la coda tra le gambe nel piccolo villaggio natio sui monti della Turchia. E, se vogliamo, sulla condizione della donna e sul riconoscere i diritti della persona riflette anche Elisa y Marcela, film della regista spagnola Isabel Coixet che racconta la vera storia di due ragazze che nei primi anni del ‘900 scoprono un amore travolgente che le porterà a cercare in tutti i modi di passare la loro vita assieme, fino al punto che Elisa deciderà di travestirsi da uomo per poter sposare Marcela in chiesa.

Alla fine dei conti la 69ª Berlinale, che sulla carta sembrava debole, si è dimostrata estremamente interessante e in grado di dare voce a quella che, a quanto pare, è un’urgenza di molti registi contemporanei, ovvero fotografare un presente scomodo e imperfetto nel tentativo – perché no? – di migliorarlo.