A Ferrara la natura secondo Courbet

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Palazzo dei Diamanti a Ferrara mette in mostra una cinquantina di oli provenienti dai principali musei di tutto il mondo

di Graziella Atzori

 

Erano cinquanta anni che l’Italia non dedicava una mostra monografica a Gustav Courbet, padre del Realismo nella storia della pittura. Grande innovatore, nella metà del diciannovesimo secolo sfida da solo ogni tradizione, sovverte i canoni dell’estetica accademica, aprendo la strada alla straordinaria stagione dell’Impressionismo. Palazzo dei Diamanti a Ferrara gli rende omaggio con una mostra dal 22 settembre 2018 al 6 gennaio 2019. È curata da Dominique de Font-Réaulx, Barbara Guidi, Maria Luisa Pacelli, Isolde Pludermacher e Vincent Pomarède e organizzata dalla Fondazione Ferrara Arte e dalle Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea di Ferrara.

Vengono esposti una cinquantina di oli provenienti dai principali musei di tutto il mondo. La scelta tematica cade giustamente sulla natura, esplorata dall’artista senza paraventi ideologici e schemi mentali precostituiti, siano quelli del classicismo legato a un formalismo ripetitivo, siano le convenzioni di un estenuante Romanticismo che ormai trasformava la pittura in un ideale astratto insincero. Courbet è un autodidatta, non studia presso un maestro e non riconosce nessuno come tale; la sua formazione e fonte ispirativa “scolastica” è il Louvre, dove si reca per assimilare il passato e confrontarsi, scoprire in se stesso la vena creativa che lo caratterizza. Vuole ritrarre il paesaggio come è prepotentemente da lui sentito, visto negli elementi di forza, possiamo dire con potenza eroica e virile. Non sceglie soggetti “aulici” in apparenza elevati, non popola i suoi lavori di creature umane; restituisce la natura al nostro sguardo nella sua incantata solitudine, trovando significativi soggetti fino ad allora trascurati, rocce rese vive dalle crepe, torrenti che non attendono nessuno, grotte misteriose, cavità altissime in cui l’uomo si svela piccolo e fragile. Dipinge alberi secolari, vedi La quercia di Flagey o La quercia di Vercingetorice (1864) che riempie la tela in primo piano quasi senza orizzonte, perché la vita è qui, urge nella cosa, nella natura animata e parlante pure nel suo mutismo. All’epoca si privilegiava (nel giudizio critico ma anche soprattutto nel valore di mercato) il quadro rappresentante la figura umana, meno il mondo esclusivamente agreste, meno ancora la natura morta. Courbet inverte decisamente i (pre)giudizi correnti, perché nulla è morto per lui; non ricerca il sublime e non cerebralizza, eppure trova ciò che commuove profondamente: mare ondoso secondo stilemi giapponesi, bosco, animali, specie i cani da lui amati in modo particolare sono protagonisti assoluti. In un bellissimo autoritratto giovanile Autoritratto detto Courbet con il cane nero (1842) il cane gli sta devotamente accanto, ma non è inferiore all’uomo che ci fissa con fierezza e un po’ di irrisione. Dietro di lui appare una cartella per gli schizzi, a dire tutto del suo mestiere, l’esercizio della contemplazione a cui l’animale viene associato.

Nel nudo femminile il Nostro non esprime il bello in forme perfette e idealizzate, desidera ritrarre donne veramente al bagno e non in posa, le restituisce al nostro piacere nei gesti e nelle curve autentiche, reali, con i difetti, perfino con la cellulite, i bacini larghi non più compressi in abiti torturanti, non chiusi in busti e stecche. La donna è fusa negli elementi e appare molto armoniosa e amabile nel mostrare la verità del corpo plastico. Significativo il quadro La sorgente o Bagnante alla fonte (1864). Il pensiero crea subito un parallelismo con Rembrandt per la capacità rappresentativa.

L’olio in grande formato Fanciulle sulle rive della Senna (estate) del 1857, in cui due ragazze giovanissime riposano sul terreno viene considerato scandaloso e lesivo del sentimento religioso. Una delle due ha tolto l’abito che diventa il suo cuscino, mostra il corsetto e la sottana, così candida da suscitare tenerezza. Il clamore e il rifiuto nascono dalla solita pruderie, ma è questa prima scena semplice, realistica e intima il precedente che renderà possibile a Manet la realizzazione di Olimpia e Colazione sull’erba solo pochi anni dopo.

Courbet è rifiutato dal Salon, il luogo espositivo allora al vertice del riconoscimento e dell’affermazione.

Nell’esposizione mondiale del 1867 a Parigi si autofinanzia, introduce per la prima volta il pagamento del biglietto per accedere alla sua mostra, crea il primo cartellone pubblicitario, imitato poi alla grande da tutti gli artisti.

Dal punto di vista tecnico abolisce il diktat dell’olio levigato e liscio, secondo il quale le pennellate dovevano essere invisibili. No, tutto in lui balza agli occhi, diventa materico, acquista spessore. Il pittore usa la spatola per esprimere la stratificazione, la tridimensionalità, il dinamismo, tutta la poesia della fisicità.

Come uomo è un dongiovanni. Porta avanti una relazione decennale importante ma rifiuta il matrimonio. La donna fondamentale della sua esistenza, Virginia Binet, gli dà una figlia che il pittore non vorrà riconoscere. Lei sposa un altro e Gustav accusa il colpo, dipingendosi ferito. Ma “se l’è cercata”, come si suol dire. L’episodio è un’ombra non molto onorevole in una vita forte, combattuta, ricca e piena.

Courbet è vicino ai più dolenti, ai lavoratori che lottano per il pane ed ancor più per la dignità. Si schiera con i rivoluzionari della Comune nel 1870, così vicini alla sua indole ribelle. Dopo la sconfitta dei comunardi, la reazione politica trova in lui il capro espiatorio da colpire come figura emblematica. L’acclamato noto personaggio di successo viene affossato e coperto di ludibrio, processato e incarcerato. Il capo d’accusa che gli procura sei mesi di prigione sta nell’aver dichiarato e richiesto che la Colonna Vendôme, fatta erigere da Napoleone in ricordo della vittoria di Austerlitz contro gli Inglesi, venisse abbattuta. Cosa eseguita nel 1871, ma Courbet non partecipa di fatto alla demolizione. È il periodo più duro della sua esistenza. Courbet ripara in esilio in Svizzera per evitare il pagamento di una somma ingente, insostenibile per chiunque, impostagli dalla Giustizia (?) come risarcimento della colonna. Nel momento tragico dell’invasione prussiana egli si era adoperato per la salvaguardia del patrimonio artistico nazionale, aiutando il Governo rivoluzionario a nascondere molte opere.

Il pittore, malato di idropisia, non riuscirà a sollevarsi mai più. I suoi ultimi quadri sono marine malinconiche con un cielo rosso toccante come una ferita insanabile. Muore esiliato e nell’oblio il 31 dicembre 1877, un giorno prima che diventi esecutiva la sentenza del risarcimento esoso come una rapina.

Sembra che l’uomo capace di contrapporsi al potere debba venire schiacciato inesorabilmente. Ma oggi ne riscopriamo la maestria, il messaggio liberatorio, la scrittura con la luce, testimonianza di libertà e bellezza. Poi, dopo di lui, gli artisti francesi decisero di seguire le sue orme nell’ascoltare liberamente il proprio demone, ovvero… le proprie impressioni. Sappiamo che gli Impressionisti vennero giudicati folli e indegni di essere chiamati artisti, prima della riabilitazione e dell’osanna. La storia si ripete. Tanto dura come per Courbet però, la storia in Europa fu solamente per Oscar Wilde, questa volta sul fronte della letteratura.

 

I levrieri del conte di Choiseul, 1866

Olio su tela

Saint Louis Art Museum