Versi da un antico dialetto

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Sfisse, nuovo libro di Loredana Bogliun nell’antico dialetto di Dignano

Il fascino che promana dall’arcaico dialetto istroromanzo, autonomo e preesistente rispetto alla vulgata veneta diffusa poi dalla Serenissima

Mettersi in ascolto: ritrovare in sé il silenzio, non farsi distrarre dalle parole, concentrarsi su quanto il mondo misterioso ci propone

di Roberto Pagan

 

Dopo Graspi (Grappoli, Edit, Fiume 2013), in cui ha raccolto le tre sillogi della sua maturità – La peicia (La piccola), Ma∫ere (Muri a secco), Soun la poiana (Sulla poiana) – la poetessa dignanese pubblica ora Sfisse (fessure spiragli), Cofine, Roma 2016: libro che, ancora inedito, si era affermato al terzo posto nel Premio Ischitella-Città di Giannone 2014. Del resto, la personalità della nostra autrice si era messa in luce fin dagli anni ’70 distinguendosi tra gli intellettuali di punta nella vivace pattuglia degli italiani d’Istria, operosa pure a Fiume, sia come redattrice della Battana che come docente all’Università di Pola, nonché come rappresentante, anche a livello politico, della comunità italiana. Vincitrice più volte per la poesia nell’annuale Concorso “Istria nobilissima”, era stata fin da subito segnalata anche in Italia sia da Loi che da Zanzotto, mentre Brevini l’aveva inclusa nell’antologia Le parole perdute. Dialetto e poesia nel nostro secolo, Einaudi 1990. Più di recente, un saggio sulla sua poesia è comparso anche in Le parole rimaste, Storia della letteratura dell’Istria e del Quarnero a cura di Nelida Milani e Roberto Dobran, Edit, Fiume 2010. Alla stessa Milani si deve il risvolto di copertina che figura ora sul nuovo libro.

Chi scrive questa nota ha potuto personalmente incontrare Loredana a Roma in Campidoglio in occasione del Premio Salva la tua lingua locale cui aveva concorso per il 2014 con il volume già citato Graspi: del libro abbiamo parlato in un articolo apparso sulla rivista I fiori del male (n. 62 del sett.-dic. 2015). Quel discorso andrebbe ripreso e approfondito ora, sulla scorta di quest’ultima sua silloge che si rivela particolarmente intensa. Accattivante alla lettura – come sempre la Bogliun – per una comunicatività quasi naïve della sua pagina, ma tutt’altro che facile quando si venga a una indagine più meditata.

Da dove ricominciare dunque per una modesta, e necessariamente breve, ricognizione dentro questo piccolo (ventisette testi disposti in cinque sezioni) ma densissimo percorso poetico?

A monte sta senza dubbio il fascino che promana dall’arcaico dialetto istroromanzo, autonomo e preesistente rispetto alla vulgata veneta diffusa poi dalla Serenissima anche in Istria e nelle isole del Quarnero. Una lingua ormai morta in sé, per la sparizione dei suoi parlanti, e che l’autrice del resto non ha mai usato nella comunicazione quotidiana; appresa nell’infanzia sulla bocca degli anziani, diventata poi strumento esclusivo del suo sentire in poesia: capace, tale idioma, di suggerire esso stesso e imporre cadenze e affioramenti memoriali, ricostruito com’è sul filo di una traccia tutta interna alla psiche, e quindi tanto più segreto e prezioso. Ben riconoscibile, nelle radici lessicali, all’orecchio di un qualunque parlante veneto, ma singolarissimo per la profusione di vocali “dittongate” in ei e ou (peicia, louna, coussei) e per altre insolite terminazioni in –o, indipendentemente dal genere (per cui maro è madre, accanto a paro, padre, ma pure il monte è monto): donde una pronuncia severa e quasi solenne.

E poi ci sono – a meglio intendere la personalità dell’autrice – le condizioni storiche e geopolitiche di una formazione psicologica. Ai tempi dell’“esodo”, tra “sommersi” e “salvati”, gli italiani che se ne andarono e quelli che dovettero rimanere, la sua famiglia, legata alla terra, fu costretta a restare. Ma Loredana allora era una bambina del tutto inconsapevole. Felice e liberissima a contatto diretto con la natura, confortata e custodita dall’affetto dei suoi cari, crebbe tra asinelli quasi fraterni e le galline dell’aia, lungo le ma∫ère petrose che contornavano gli orti, tra sole e vento e nuvole e il mare sullo sfondo. Tra uccelli e farfalle e in mezzo agli alberi, in tutte le stagioni, allo svariare dei colori di foglie ed erbe. È questo inizio – noi crediamo – che ha fatto di lei una “salvata” per il resto della vita.

Gli echi e le immagini di questa infanzia quasi fiabesca costellano tutti i versi di Loredana che già conosciamo. Ma ancora qui, nel libro che abbiamo sotto gli occhi, non può sfuggirci il luminoso quadretto che troviamo in “rispeiro scufado” (a p. 15): scufada vidivi al siel vultra le piere / e uta i feili de ierba ch’a crisso sempro / co me alsavi anca al mar a lon∫i / fassiva lustreini fati d’al sul ch’a breila (accovacciata vedevo il cielo oltre le pietre / e sotto i fili d’erba che crescono sempre / quando mi alzavo anche il mare da lontano / faceva luccichii fatti dal sole che brilla). Scenetta che sembra davvero dipinta dalla mano di un bambino, vista con gli occhi della prima scoperta: giusto al di là del muretto a secco costruito dal nonno con le pietre raccolte da terra: la ma∫era douta de piere/ la veiva fata me nono / ingroumandole de la tera (ivi p. 15).

Da questo serbatoio fecondo della prima infanzia sembrano provenire ancora forme e immagini risospinte alla soglia della memoria da un vitalismo tenace e primigenio: i anemai ne salouda in belissa / la ierba crisso co l’acqua la bagna (gli animali ci salutano in bellezza / l’erba cresce quando l’acqua la bagna (p. 4/5); i vuravi ∫eighe drento a sto arboro / e faghe crissi le fuie nunsiandoghe/ la me ligreia (vorrei andare dentro in quest’albero / e fargli crescere le foglie annunciandogli / la mia allegria…(p. 8/9). Per giungere alla girandola smagliante de “l’anema meia” (p. 11/12): co i vaghi a vidi / al busco se inamura / me reido al prà / al sul me ∫barlomba (quando vado a vedere / il bosco s’innamora / mi ride il prato / il sole mi abbaglia); o alla leggerezza, incantevole e incantata, della farfalla (p. 18/19):…douto la incontra e ghe se incanta / in tal mondo verta la so ca∫a, verta / spalancada cumo regalada // e gila la ven fora balando in tal’aria / par faghe festa ai culuri…(tutto incontra e le s’incanta / nel mondo aperta la sua casa, aperta / spalancata come regalata / e lei viene fuori danzando nell’aria / per far festa ai colori).

Ma questo che abbiamo chiamato, per approssimazione, vitalismo primigenio innesca poi anche il desiderio, non solo di ammirare, ma quasi di possedere la bellezza del mondo. Ritorniamo alla poesia di p. 8/9, che di fatto s’intitola “brama”, e cioè “desiderio”: desiderio sì, di capire il mondo, ma prima di “afferrarne il bello e tenerselo stretto stretto, magari nella tasca abbottonata”, come se al bel fusso de ciapalo / tigneisselo strito strito vissein / magari in tala scarsila imbotunada. Fondamentalmente persiste anche l’idea di una intrinseca armonia del mondo: “è sicuro, è tutto una meraviglia” (p. 16/17): ma ∫i sigouro, a ∫i douto ouna maraveia. Perciò: “si dovrebbe voler bene a questo mondo” (begna vulighe ben a sto mondo) (p. 42/43), “si dovrebbe spalancare il sacramento / col sole che arriva dalle fessure larghe // ci scalda il cuore” (ghe vuravo spalancà al sacramento / cul sul ch’a reiva de le sfisse larghe // el ne scalda al cor ) (ivi).

Ecco dunque le sfisse larghe, gli “spiragli” del titolo: teniamoli d’occhio. E, qua e là, si affaccia anche l’idea che questo mondo ha un senso, non solo un’armonia: “non credere che questo mondo / non sia fatto con l’ingegno” (e no stà cridi ch’ a sto mondo / no seia fato cu l’in∫egno) (p.50/51). Così dice Loredana in un testo che sembra un idillio e s’intitola “in squara” (che è termine da muratore o da falegname: cioè dritto, fatto a squadra, ma lei traduce, con parola più colta,“armonia”). E allora bisogna aver coraggio ed essere fiduciosi, “guarda dritto senza / dubitare di quello che ti arriva” (ivi). E, per quel poco che noi conosciamo della sua vita privata, Loredana Bogliun questo ha fatto, con coraggio, nella sua esistenza. Con coraggio e umiltà. Sicché il suo ideale sembra rispecchiarsi tutto nel sorridente e rustico ritrattino della Irina: la gobbetta che s’era fatta una casa in cima al monte, e lì se ne stava beata con i panni sventolati al vento, mentre la gallina portava a spasso i suoi pulcini (cfr. “Ireina”, p 27); tanto che la pagina conclude: begna cridighe a sto destein fato de curaio // cu de la finestra i vardi al mondo i vidi la Ireina…

Ma il mondo è poi anche “intricato”, è una “guerra”, una “baruffa”, un “pasticcio” (cfr p. 10/11), una incastradoura mata (“un folle incastro”), e la nostra vita è balereina (“ballerina”) e sembra vi si nasconda in un mistero (ivi). E allora – dice ancora Loredana – “con questo desiderio di capire il mondo / mi vedo piccola ogni giorno di più” (cfr. p. 8); se ne può trarre anzi la filosofia che “da piccolo tutto ti sembra grande / anche il posatoio delle galline / il bello è che solo da grande / sai di essere piccolo”: cfr. p. 42: è la stessa pagina delle “fessure larghe”. La vita è dunque metamorfosi, “questo mondo si accende e si spegne, tutto ritorna e si sveglia, questa vita è fatta di tanti ancora” (ivi).

Ma ci rendiamo conto che, scorrendo le pagine del libro, l’abbiamo ridotto a frammenti. Collegandoli poi, arbitrariamente, a nostro piacimento, per cavarne un filo conduttore. Altra cosa è leggere i testi nella loro integrità, così come si presentano sulla carta. È qui che talvolta l’estro compositivo di Loredana Bogliun ci spiazza, perché il suo procedere – inconfondibile per originalità – non sempre rivela una coerenza evidente. Intanto il suo testo anche graficamente si dispone sul foglio come un blocco frastagliato, come un mosaico in cui le tessere siano appena accostate l’una all’altra: brevi grumi espressivi, tre-quattro versi al massimo, circondati da pause frequenti, che lasciano varchi aperti al silenzio: sicché la consequenzialità è più tonale che razionalmente esplicita. Come se i versi fossero trascritti di volta in volta proprio come emersi dall’inconscio. In quei silenzi dunque che precedono le parole, e che sono un po’ come le “sfisse” luminose, si celano forse spiragli di senso ulteriore. Questa dialettica tra parola e silenzio diventa anzi nella raccolta uno dei temi portanti, ed è centrale soprattutto nella prima sezione del libro che è messa sotto il segno dell’ascolto”. Scultà è monito e invito ricorrente. Che l’autrice rivolge prima a se stessa: perché proprio nel silenzio ritrova quella capacità, appresa forse fin dall’infanzia, di sentire e vedere le cose del mondo oltre la superficie, fin dentro la loro essenza, meglio e più a fondo della grande maggioranza delle persone, assordate e forse persino appagate dal chiasso che le circonda. E allora quell’essenza che illumina e sorride, perché lei la riconosce come l’armonia di un cosmo “fatto con ingegno” è difficile dirla con le nostre parole, siano pure quelle della poesia. Da ciò la ritrosia di fronte alla favèla – cosa in sé quasi paradossale – che introduce alla prima pagina del libro, intitolata proprio “poeia”: adisso i vuravi fà ta∫i la favela / cumo se dèi e fà fusso fineidi… “Adesso vorrei zittire la parola / come se dire e fare fossero finiti” (p. 4/5). Ed ecco allora altri versi sul filo di quel panismo magico cui già si accennava: “come se la notte arrivasse di nascosto / fuori dal giorno fattosi amico”: c’è amicizia dunque, non contrasto, tra la notte e il giorno. Qui ancora una pausa. E poi un verso isolato (e quindi più intenso), che è un centro focale del testo: “ascolta, allora, ascolta, non è inganno”, sculta alura, sculta, a no ∫i imbroio. Non c’è inganno: la natura è davvero tutta in armonia. Ecco infatti che “gli animali ci salutano in bellezza”: i anemai ne salouda in belisa; e “l’erba cresce quando l’acqua la bagna”, la ierba crisso co l’acqua la bagna. E dunque, come accogliendo fiduciosa un invito a immergersi nella natura nella sua totalità, lei stessa, l’autrice, avanza scalza dentro il fango, vincendo ogni ribrezzo, anzi: come se fosse sabbia fina: mei i vaghi discalsa in tal fango (ch’el me par fato de sabia feina). Anche il fango – terra e acqua nella sostanza – può essere amico. (Una sensazione vissuta o solo immaginata? – ci domandiamo. Un remoto ricordo d’infanzia? Ipotesi inutile, anche se non impossibile). Qui altri due versi isolati, altrettanto carichi di mistero e altrettanto significativi: “ho un sospiro che va incontro / al mondo, lo prendo senza parlare”, ie oun suspeir ch’a ghe va incontro / al mondo , i lo inguanti inseina favela. Non c’è bisogno di parole per abbracciare il mondo. Un altro punto saliente: quello, anzi, della massima tensione spirituale. In questa specie di “festa”, “di cui si ha persino riguardo a godere”, c’è ancora un verso in cui s’appunta questo scavo nell’interiorità: in douto oun segrito me pali∫a: “in tutto c’è un segreto che mi svela”. E non dice – badiamo – mi si svela: è lei che è svelata a se stessa. E infine risuona ancora, come ritornello, l’invito fiducioso:”ascolta”, ascolta” che ci riporta all’inizio.

Che cos’è dunque “poesia” – se ricordiamo il titolo della pagina – per Loredana Bogliun? È soprattutto mettersi in ascolto: ritrovare in sé il silenzio, non farsi distrarre dalle parole, concentrarsi su quanto il mondo misterioso ci propone: come fa appunto il sole attraverso le aperture di una tenda. E analoga risposta, quella che ancor meglio riconcilia i termini contrapposti di “silenzio” e “parola”, la potremmo ricavare dall’inizio della poesia successiva (In tala grota, p. 6/7): quista favela nasso seita, sconta / calada vula ch’a l’anema se de∫mentega / e al cor no iò pioun ∫magna, “questa parola nasce zitta, nascosta / scesa là dove si smemora l’anima / e il cuore non ha più affanno”. Una definizione – la parola che nasce zitta – che è come un vertiginoso cortocircuito…

Ma concludiamo rapidamente, sia pure a malincuore, andando addirittura all’ultima pagina. Che si intitola “smagnà” (p. 57): e quindi “smaniare”, che qui Loredana traduce “soffrire”; ma, in forma nominale, la parola era già presente nel titolo della pagina 47: “smagna”; lì risolto in “tormento”. Sofferenza e tormento, dunque. Più cupo e rabbuiato, in parte sì, il clima di questo congedo “in re minore”, come suggerisce Mauro Sambi nella sua appassionata postfazione. Dopo l’amore, cantato con grande intensità nella parte centrale del libro, ma ormai tramontato – come era in qualche presentimento (“non tornare più quando ti mando via // anche del sole quando va nella notte / rimane tutta una fantasia”, cfr. p. 34) – ; morto anche il padre che le era assai caro, a cui sono dedicate in quest’ultima sezione due tesissime elegie (p. 47 e p. 55); Loredana è rimasta sola, franca ma straneida, “libera ma turbata” (p. 56/57). “È tutto incolto”, (a ∫i douto ingraià), può anche gridare in un momento di disperazione (p. 44/45). L’armonia del mondo improvvisamente le sembra dissolta (e una volta di più si potrebbe notare come anche un moto di rabbia sgorghi da un’esperienza “da contadini”, legata alla terra). Ma, alla fine, può dire ancora: “di te una tenerezza arriva” e “mi svela” (p. 56): con la stessa formula – e lo stesso verbo – che aveva usato nella poesia d’apertura: “in tutto c’è un segreto che mi svela” (p. 4). Con più stanchezza, ma con lo stesso coraggio (a se distreiga al me pensir straco, “si riordina il mio pensiero stanco”), può accingersi ad affrontare “una lunga notte insonne” (sta notolada longa). Giusto un sospiro: i vuravi cuntentame de gnente, “vorrei accontentarmi di niente” (ivi). Dove il “niente” sembra solo sostitutivo del “silenzio” che aveva invocato altre volte: adisso i vuravi fa ta∫i la favela (p. 5).

 

 

Copertina

Loredana Bogliun

Sfisse

Edizioni Cofine, Roma 2016