L’esproprio del nostro tempo

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Scrivere queste righe all’indomani dell’annuncio del Dpcm che impone ulteriori divieti e chiusure per almeno un mese non è semplice, ad iniziare dalla scelta dell’argomento. L’impressionante progressione della pandemia che infuria sul mondo, mietendo vittime e ponendo in crisi i sistemi sanitari dell’intero pianeta? Oppure il costo economico che pagheremo – e pagheranno le nuove generazioni, a prezzi di usura – per le spese che doverosamente siamo costretti a mettere in campo per evitare colassi ancora peggiori o addirittura fatali al nostro Paese? I danni alla formazione scolastica e universitaria, derivanti da soluzioni didattiche improvvisate e inegualmente distribuite agli utenti? Lo sfinimento di quanti lavorano nello spettacolo e di esso vivono, ridotti al silenzio dalle ultime disposizioni, benché teatri e cinema si fossero adeguati a tutte le disposizioni dettate dai decreti e dal buon senso? Le proteste scomposte – quando non violente – e strumentalizzate dall’estrema destra, ma anche dalla camorra, a Napoli, che rischiano di essere solo il punto di innesco di un pericoloso incendio, tanto per non farci mancare neanche problemi di ordine pubblico?

Quanto manca a chi scrive in questo surreale lunedì post-decreto non sono, come si vede, gli argomenti, ma piuttosto la ponderata valutazione di cosa implichino le misure di restringimento della nostra libertà di azione o, se vogliamo, di quali siano i danni che il maledetto virus è in grado di produrre non già nel nostro organismo (quelli sono riscontrabili tramite analisi, radiografie, TAC e, purtroppo, autopsie), ma nella nostra psiche, nel nostro porci in relazione con la società, nella sfera delle nostre esigenze affettive e in quella di un loro adeguato soddisfacimento. Riflettendoci su, avvertiremo allora un’ulteriore prezzo che dovremo pagare alla pandemia, per le limitazioni che ci impongono i decreti, che si aggiungono a quello dell’onere di carattere economico, di per sé cospicuo. è l’esproprio del nostro tempo, l’impossibilità di incontrare le persone che amiamo, di cenare assieme, di abbracciarci, di stringere la mano a un amico, di andare al cinema, a teatro, per godere di una condivisione sociale dello spettacolo, di incontrare personalmente uno scrittore o un poeta in occasione della presentazione di un suo libro. Per non parlare del tempo di socializzazione necessario come l’aria ai bambini e, ancor più, agli adolescenti, che avrebbero diritto di stare assieme, di ciarlare, di baciarsi e di iniziarsi reciprocamente a una vita affettiva – e, perché no, erotica – che il virus (non chi ci governa) mantiene problematica se non proprio interdetta.

Da questo tempo sottratto alla socialità deriva un’atomizzazione del tessuto sociale, per cui i cittadini sono respinti in una dimensione corporativa, settoriale, che finisce per divenire individuale, in cui ciascuno ricerca per suo conto una sua plausibile risposta al «si salvi chi può» che sembra proclamato ad ogni passo avanti dell’allarme sanitario, spesso fomentato per ragioni politiche da poco disinteressati commentatori e protagonisti del circo Barnum della politica nazionale. E di quella regionale, per lo più impegnata a sostenere energicamente la chiusura quando il governo apre, o l’apertura il giorno dopo che il governo ha chiuso, nell’insultante balletto cui abbiamo dovuto assistere dall’inizio di questa tristissima vicenda. Smarrita ormai la comunanza dei propositi, dei saluti di incoraggiamento da un balcone all’altro, dei tricolori esposti alle finestre, della retorica dell’«andrà tutto bene», ciascuno si ritrova isolato, solo con i suoi bisogni, con l’urgenza di soluzioni da inventare giorno per giorno, con la sporta della spesa che è, per molti, difficile ormai da riempire.

Criticare le determinazioni di chi ci governa è facile, persino in molti casi scontato, ma chi lo fa per guadagnare qualcosa per sé e per il suo partito, anche se si auto-definisce patriota, la Patria non sa nemmeno dove stia di casa.