Sangue

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di Giuseppe O. Longo

 

Il cadavere fu scoperto ai piedi del Montagnone da un gruppo di ragazzini che avevano marinato la scuola e stavano giocando sulle Mura. Si può tentare di immaginare lo stupore prima ancora dell’orrore, quello stupore che impedisce di capire ciò che si vede, un misto di curiosità e di stranezza, quel corpo buttato, la testa quasi nascosta dall’erba, il sangue grumoso, scuro, marrone quasi, le braccia tese. I bambini ammutoliti, avrebbero raccontato, forse avrebbero, questa storia ai compagni di classe, i genitori li avrebbero interrogati, i professori, negli anni la storia si sarebbe modificata nel loro ricordo, ingigantita, arricchita di particolari, ne avrebbero parlato sottovoce con la moglie nei momenti d’intimità, inventando, descrivendo l’uomo in bicicletta che passava di là, com’era vestito, com’era la bicicletta, ritardando il momento in cui avrebbero detto, venga venga c’è un morto, l’uomo stupito, incredulo, portato fino al punto, fino al cadavere, fino al sangue. Poi l’uomo era andato di corsa dai carabinieri, aveva detto ai bambini di stare lontani, di andare a casa, di non toccare niente. Erano arrivate le vecchie, vestite di nero e di grigio come avvoltoi, avevano guardato, esclamato, avevano arruffato le penne, sgranato gli occhi, incrociato le mani, le bocche aperte in un’esclamazione muta, i carabinieri avevano durato fatica ad allontanarle, tornavano sempre indietro, adesive, pigolanti, si erano accoccolate poco lontano, su certi pietroni, avevano prodotto una narrazione, ciascuna aveva una sua improbabile teoria minima, la parola che tornava era sangue, tutto quel sangue, sangue scuro quasi nero, l’erba impiastrata di sangue. Erano arrivati i giornalisti, i fotografi, i carabinieri li avevano tenuti a distanza, sulla Gazzetta erano comparsi titoli cubitali, articoli fantasiosi e morbosi, la gente ne parlava, ma fotografie niente, il direttore era stato chiaro. Il corpo fu rimosso, era di un ragazzo sui vent’anni, bruno, la gola squarciata, all’obitorio annesso all’Arcispedale Sant’Anna il medico legale eseguì un’autopsia dall’esito scontato, poi uscì nel tramonto di maggio che si allungava sul corso della Giovecca fino a dorare l’arco della Prospettiva di un tranquillo carneo fulgore. Non sapremo mai le domande che si fece il medico quella sera, se domande si fece. Potrebbe essersi chiesto chi era l’assassino, perché aveva ucciso, dov’era in quel momento. Forse ipotizzò un delitto maturato nel giro della prostituzione, certo non era stato un delitto a scopo di rapina. Poi, immaginiamo, scosse la testa e si diresse verso casa, forse abitava non lontano, magari in via Scandiana, l’aspettava una moglie, dei figli chissà, anch’essi esposti ai pericoli della vita e ai delitti di sangue. Le indagini, dicono, proseguirono per un paio di settimane senza approdare a niente, i carabinieri vagavano nel buio, interrogarono dei tipi senza fissa dimora, degli omosessuali noti in città, niente. Le vecchie si adunavano ogni giorno ai piedi del Montagnone, sul prato del morto, come lo chiamavano, il sangue era stato lavato via, era rimasta una vasta chiazza d’erba pestata, ciancicata, che pareva non avrebbe mai più ripreso la sua forma. Intanto in un letto dell’Arcispedale Sant’Anna giaceva da qualche giorno un uomo sui trent’anni, ricoverato forse per una polmonite o per altro, qualcuno parlò di un’improbabile frattura al polso, il quale molto s’interessava al delitto del Montagnone, si faceva prestare il giornale, parlava con i vicini di letto con una punta di vanteria, finché qualcuno, un medico, un’infermiera, un paziente, ebbe l’impressione che quel tizio robusto, sul biondo, ne sapesse più di quanto fosse comparso sui giornali, così si alzò dal letto, andò a parlare con un medico, esitando gli disse dei suoi sospetti, il medico andò dal primario e dopo un’ora arrivarono i carabinieri. Ci fu un interrogatorio, poi un processo, poi la condanna, ma non conosco i particolari, prima della sentenza ero andato ad abitare in un’altra città.