Una stagione iniziata bene

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La Società dei Concerti, nell’esordio della sua stagione ’22-’23 propone i concerti di Mikhail Pletnëv e Daniel Lozakovich

di Luigi Cataldi

 

Due esibizioni, bellissime e per motivi diversi singolari, hanno inaugurato la stagione 2022-2023 della Società dei Concerti. La prima di un pianista maturo, Mikhail Pletnëv, la cui carriera (di rilevanza storica nel vero senso della parola, visto che fu artista di punta dell’URSS di Gorbačëv) pare condurlo oggi verso un ripiegamento su sé che sembra trascendere le contingenze del mondo attuale. La seconda di un giovanissimo e raffinatissimo violinista, Daniel Lozakovich, la cui esibizione, da tali contingenze, è stata condizionata.

Mikhail Pletnëv, pianista applaudito sui palcoscenici di tutto il mondo (da quando, ventunenne, nel 1978, vinse il premio Čajkovskij a oggi) e apprezzato anche come direttore d’orchestra (fondatore e a lungo direttore della Russian National Orchestra), compositore e regista, con all’attivo una ricchissima produzione discografica, si è esibito il 21 novembre scorso in un Teatro Verdi gremito. A Trieste Pletnëv ha presentato una scelta di composizioni brevi di Antonin Dvořák e di Johannes Brahms, queste ultime accostate alle altre per affinità (come gli Intermezzi op. 117, che l’autore definì «ninnananne dei miei dolori») o in funzione introduttiva o connettiva (come la Rapsodia in Si minore op. 79 n. 1 e la Ballata in Sol minore op. 118 n. 3). È parso, infatti, che l’itinerario, sia stato pensato a partire dai pezzi di Dvořák, brevi, con forme di sviluppo essenziali, spesso costruiti su melodie semplici ma dal carattere definito, come i Pezzi per pianoforte op. 52 o i Quadri poetici op. 85, a volte derivati dal folklore di cui il compositore era attento osservatore, come le Humoresque op. 101.

Pletnëv è entrato con passo veloce, si è seduto e ha iniziato a suonare, senza curarsi delle luci ancora accese e degli applausi di accoglienza non ancora terminati. Dal punto in cui è caduto sulla panca del piano (lo Shigeru Kawai che lo accompagna in ogni concerto) non si è più mosso: non un gesto, non un movimento se non quelli necessari a produrre il suono. Più che concentrato è sembrato assorto. Il pubblico, variegato e diversissimo (vecchi fedeli abbonati, appassionati, studenti, scolaresche intere), è rimasto assorto lui pure ad ascoltare. Il discorso musicale è proseguito ininterrotto con una sola pausa fra i due tempi del concerto. I brani scelti, che sulla carta potevano apparire episodici, sono divenuti parte di un calibratissimo e unitario percorso. Per il proprio carattere le composizioni, tutte aliene dalle lunghe elaborazioni tipiche del sonatismo tardoromantico, sono parse come creature musicali, ciascuna dotata di individualità propria, data dai temi, dal modo in cui essi hanno preso forma (ritmo, tempo, accompagnamento, sonorità) e da un essenziale sviluppo. La parentela fra i singoli pezzi dei due compositori eseguiti è portata alla luce dallo stile di Pletnëv. Egli è sorprendente nelle dinamiche (cristallini e mai eccessivi i forti; tutte le sfumature dal mezzo-forte al pianissimo, fino all’appena percepibile, che però tutti ascoltano distintamente), originalissimo nelle agogiche, spontaneo nei fraseggi. Non esibisce alcun virtuosismo (semmai una dissimulata, raffinatissima, tecnica), né alcun apparente edonismo e, con ciò, nessuna retorica. Pletnëv pareva suonare per sé solo, come incurante del pubblico. Nonostante ciò e nonostante il pianista non abbia fatto nulla per compiacere chi lo ascoltava, ma solo un trattenuto sorriso e alcuni misurati inchini di non misconosciuta buona educazione, il pubblico si è sentito parte di un’esperienza musicale collettiva non comune ed ha infine applaudito con spontaneo trasporto. Con i bis (reciproche manifestazioni di riconoscenza di pubblico ed esecutore) si è ritornati nel mondo, nella sala da concerto, con le forme, necessarie e codificate, dell’esibizione. Fra i tre concessi (apprezzatissimi e giustamente applauditissimi) va segnalato un quantomai virtuosistico Studio op. 72 n 6 di Moritz Moszkowski.

Per il secondo concerto della stagione, tenutosi il 28 novembre scorso, avrebbe dovuto esibirsi un duo, Daniel Lozakovich al violino e Stanislav Soloviev al pianoforte. Le contingenze dell’attualità hanno però impedito al pianista di essere presente e il concerto è stato eseguito dal solo violinista. «Forza maggiore, determinata dal conflitto russo-ucraino», segnala la Società dei Concerti. Soloviev è russo, è nato (nel 1979) e si è formato a San Pietroburgo (allora Leningrado), perciò a causa della mobilitazione parziale proclamata dalla Russia non può lasciare il suo paese. Rischia di essere mandato in guerra nonostante l’interessamento al suo caso di alcune associazioni umanitarie, nonostante i contratti già siglati in Europa e nonostante possieda un visto Schengen, come si legge nel comunicato con il quale lo scorso ottobre è stata annunciata la sua assenza alle Serate Musicali del Conservatorio di Milano. Confini che sembravano scomparsi diventano improvvisamente insormontabili.

Anche Daniel Lozakovich è figlio di un mondo senza confini. È nato nel 2001 in Svezia, a Stoccolma, da padre bielorusso e madre kirghisa. A sei anni ha rivelato una straordinaria propensione per il violino, tanto che a otto anni già si esibiva con i Virtuosi di Mosca di Vladimir Spivakov. Ha proseguito gli studi alla Karlsruhe University of Music con Josef Rissin e a Ginevra con Eduard Wulfson. Poi una intensa carriera concertistica in tutto il mondo e già quattro dischi per la Deutsche Grammophon. La formazione, la carriera, la vita intera degli artisti di oggi sono cosmopolite. Anzi, credevamo che il mondo intero lo fosse. Eppure le esperienze degli ultimi tempi (non solo la guerra e la pandemia, ma anche la paura del diverso e dello straniero che si diffondono sempre più largamente) mostrano che i confini tendono a riformarsi e a trasformarsi in recinti. Così le liberà che siamo abituati a dare per scontate si rivelano più fragili e in pericolo di quanto non immaginavamo. Anche un semplice concerto lo può mostrare.

Daniel Lozakovich ha portato con sé questi problemi e si è esibito dunque in un’atmosfera diversa rispetto al previsto. Suona un violino Stradivari “ex barone Rothschild” del 1713, dal quale riesce a trarre una sonorità varia (colpiscono i suoi pianissimi) e piena. Non ostenta mai il proprio virtuosismo, sebbene possieda una tecnica che gli consente di affrontare senza fatica pagine quantomai ardue, come il Capriccio n. 24 di Paganini e la Paganiniana di Nathan Milstein (la sezione conclusiva del concerto, eseguito peraltro tutto d’un fiato, senza intervallo), nelle quali mostra naturalezza e sincera partecipazione emotiva: nelle parti liriche non teme affatto di sembrare appassionato. In apertura ha eseguito la Partita n. 2 in re minore, BWV 1004 di Johann Sebastian Bach. Lozakovich preferisce la chiarezza al virtuosismo, anzi il suo maggior virtuosismo è nella capacità di fare emergere le simmetrie e le strutture formali della composizione, preferendo non forzare i tempi come nell’allemanda, sottolineando i contrasti ritmici e di articolazione (le terzine e i ritmi puntati, gli staccati e i legati) come nella corrente, o la leggerezza della danza della giga. Tutte queste caratteristiche si ritrovano nella ciaccona, eseguita con equilibrio, leggerezza e persino passione nella sezione in tonalità maggiore. Bella anche l’esecuzione della Sonata in sol maggiore op. 27 n. 5 del belga Eugène Ysaÿe (1858-1931), uno dei padri del violino moderno, in due tempi di carattere impressionistico: la bella e libera «Aurora» dipinta dal violino e la più misurata, ma appassionata «Danza rustica». Applauditi anche i tre bis: ancora un adagio di Bach, Kreisler Recitativo e scherzo op. 6 e Čajkovskij, Valse sentimentale.

 

Mikhail Pletnëv