Acconti dell’epistolario sabiano
Fulvio Senardi | Il Ponte rosso N°60 | saggi | settembre 2020
Pubblicato da Stefano Carrai il carteggio del poeta triestino con Sergio Solmi
di Fulvio Senardi
Grazie a Stefano Carrai, docente alla Normale di Pisa e appassionato della nostra città e dei suoi scrittori (ricorderemo soltanto la bella monografia dedicata a Saba uscita nel 2017 per i tipi della Salerno), si aggiunge un’altra tessera («Caro e gentile Solmi», «Carissimo Saba». Lettere fra Umberto Saba e Sergio Solmi, in «Giornale storico della letteratura italiana», 2020, n. 2) a quell’epistolario sabiano su cui già Linuccia si era messa al lavoro, senza poter concludere la fatica, e che assomiglia un po’ alla proverbiale carota davanti al naso dell’asino (degli studiosi, in questo caso), che la rincorre senza mai poterla prendere. Ma se noi, gli appassionati dell’arte di Saba, dovremo probabilmente ancora molto attendere prima di poter disporre di quell’epistolario completo che si annuncia sconfinato, ciò (ed è molto!) che a pezzi e a bocconi è già stato pubblicato basta e avanza per lasciarci scorgere uno scrittore sapiente e un aforista arguto che, con il piacere di contatti amicali nutriti di affettività e intelligenza, si abbandona alla pratica epistolare come su un piccolo palcoscenico segreto per le piroette del pensiero. Lì l’uomo si mette spesso a nudo, quasi che la distanza smorzasse il bisogno di barriere protettive, mai in pace con se stesso, assetato di considerazione e riconoscimento, affetto da nevrosi piccole e grandi, ma spietatamente lucido e insieme tollerante quanto a vizi e virtù dell’animale uomo.
C’è stato un momento (nel 2003, per la precisione), quando chi scrive aveva sperato anch’egli di dare un modesto contributo all’assemblaggio dell’epistolario: coinvolgendo in una miscellanea sabiana l’amico giornalista Alessandro Mezzena Lona, si era illuso che la notizia di un importante ritrovamento da parte di quest’ultimo di un fondo epistolare sabiano conservato presso il figlio di Tullio Mogno, “araba fenice dei filosofi” come lo aveva definito il poeta triestino (più di 130 lettere, un piccolo tesoro), avrebbe motivato l’amministrazione comunale a proporsi per l’acquisto. Non accadde nulla, il figlio di Mogno, Marcello, pittore di un certo rilievo, è intanto venuto a mancare, e il fondo sabiano, forse disperso tra gli eredi, finirà un giorno per ricomparire presso Sotheby o qualche altra importante casa d’aste.
Quanto a Solmi e Saba, su cui ora ritorniamo, lo smilzo epistolario che Carrai ha raccolto e che commenta da par suo è stato ricavato da testimoni epistolari presenti presso la Fondazione Sapegno di Morgex, il Centro manoscritti dell’Università di Pavia, e la Biblioteca Nazionale Centrale di Roma, disposti lungo un arco cronologico che va dal 1926 alla morte del poeta, a comporre un carteggio marcatamente sbilanciato: trenta lettere e un telegramma di Saba, e tre lettere e due telegrammi di Solmi (commenta Carrai: “la corrispondenza risulta scandita soprattutto dalle occasioni fornite dai successivi contributi critici di Solmi alla poesia sabiana”). Non dobbiamo stupircene: per Solmi, che lotta, negli anni Trenta, per un impiego stabile presso la Banca commerciale italiana, il saggismo letterario e la pratica, in proprio, della prosa e della poesia, è il momento del piacere (e della felicità), duramente contrastato dal principio di realtà che impone anche alla scrittura epistolare, dobbiamo pensare, tempi strettamente contingentati. Di fronte a lui, il poeta apprensivo e petulante, prodigo di ringraziamenti per le pagine saggistiche che il critico gli dedica (e che leniscono la sua stizza di incompreso), ma che lo vorrebbe più presente e più schierato nella difesa della propria poesia: insistente nel chiedergli una prefazione ad una antologia delle sue liriche che non vedrà mai la luce (in progetto dal 1928), ostinato, ai limiti dell’invadenza, nel domandargli una risposta polemica ai riduttivi giudizi di Gargiulo (esposti sulla rivista «Italia letteraria» del dicembre 1930).Per altro è ipotesi non peregrina che qualche missiva di Solmi sia andata perduta, come successe a molti documenti in possesso di Saba – tutte lettere ricevute da Mogno, per esempio – negli anni della fuga da Trieste per sfuggire alle retate nazi-fasciste.
L’inizio dell’interesse di Solmi per Saba, per andare alla fonte di questa passione critica, risale addirittura al 1917 quando Francesco Meriano gli fece leggere il numero della «Brigata» su cui il triestino aveva pubblicato alcune poesie giovanili, mentre fu con una recensione di Figure e canti sul «Baretti», nel 1926, che Solmi si conquistò la fiducia del poeta, che subito comprese, come spiega Carrai, che, “dopo Debenedetti, Solmi era il suo interprete più acuto ed autorevole” (non per questo evitando di orientare, quando possibile, la lettura dell’amico: “appena verrà a Milano ti dirò in cosa consiste la differenza fra il primo e il secondo Canzoniere […], per risparmiarti lavoro”, 31.I.1934). Di persona si conobbero però soltanto nel 1928, l’anno in cui Solmi e signora fecero visita al poeta a Trieste, dando avvio ad un rapporto sempre più affettuoso in cui Saba figura anche nelle vesti non inusuali di “medico dell’anima”, per dire con Erich Fromm, perché fin troppo incline ad esprimere valutazioni – sullo sfondo di una dottrina che, dopo la cura con Weiss, conquista tutta la sua approvazione – sulla psicologia dell’amico. Fin dal 1930, ad ogni modo, egli cerca, su questo terreno, la sua complicità, inviandogli una copia di Totem e Tabù, “uno dei libri più tetri e più veri che siano stati pensati a questo mondo; un fascio di luce proiettato nella preistoria dell’umanità, della quale soffriamo ancora oggi” (29 novembre 1930), sperando forse in una sua “conversione”. Non esiterà poi, negli anni seguenti, a tentare delle diagnosi, da vero psicanalista “selvaggio”, come si era definito Groddeck: “due terzi delle tue sofferenze”, chiarifica Saba all’amico il 28 gennaio 1933, “sono di carattere nevrotico” (rassicurandolo, nella stessa lettera: “tutta l’umanità è ammalata di nevrosi”); scava (a partire dalla lettera del marzo dello stesso anno) nell’“ambivalenza” che, a suo parere, caratterizza il rapporto di Solmi nei suoi confronti, originata dall’“apprensione che io possa dirti qualche cosa che tocchi i tuoi complessi”, problema che naturalmente coinvolge, come sempre sullo spartito freudiano, anche l’Edipo: “dovevo necessariamente assumermi un poco del tuo atteggiamento infantile verso il padre”; interpreta secondo parametri psicosomatici l’influenza che colpisce Solmi nel febbraio 1934. Nonostante ciò non sembra che Saba sia riuscito a fare del suo critico prediletto (insieme a Debenedetti, naturalmente) un adepto della disciplina, non, almeno, nella maniera estensiva e incondizionata che egli intendeva: “la critica pienamente psicologica, fatta dai letterati, mi sa spesso di invenzione romanzesca”, spiega a Saba nel 1947 un Solmi reduce dalla lettura del saggio di Sartre su Baudelaire, “mentre, fatta da scienziati, mi sembra destituisca l’opera a mero documento, e che le sfugga l’elemento ‘valore’. So che su questo punto non andiamo veramente d’accordo, ma pazienza”. Una piccola dissonanza che certo Saba avrebbe spiegato come “resistenza”. E che certo poco doveva contare, ai suoi occhi, di fronte ai grandi meriti del critico che così bene lo aveva capito “sono rimasto impressionato”, scrive a Solmi nel marzo 1947, “dalla tua interpretazione di Scorciatoie, nelle quali si sono depositate le parti più discorsive e occasionali della mia poesia, lasciando in cambio più libera la vena poetica. È un’occasione preziosa, e anche psicologicamente illuminata e illuminante. Ancora una volta, bravo vecchio Sergio.” Un Solmi che, se non aveva sposato il fondamentalismo freudiano del triestino, lo aveva però seguito – e Saba doveva esserne compiaciuto (Jeder Dichter ist ein Narzisus, confessa a Joachim Flescher nel secondo Dopoguerra) – sulla strada della poesia: “tempo fa ho letto una tua bella poesia: Bagno popolare. Ci mancava poco perché fosse una poesia interamente memorabile […]” (Trieste, autunno 1935). Quasi memorabile dunque (Saba non era prodigo di lodi in tema di poesia), forse proprio perché, ipotizziamo, essa rappresenta una delle più appariscenti espressioni della vena sabiana di Solmi.