GLI SCARPONI DI TORE

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di Graziella Atzori

 

Primo premio per il racconto breve alla XVIII edizione del Premio letterario Carlo Ulcigrai 2014

 

Salvatore Mulas, detto Tore, appena diciottenne, aveva occhi neri misteriosi, d’indefinibile età.

Quegli occhi sapevano scrutare nel fondo delle cose per scoprire la verità nascosta dietro le apparenze, proprio come riesce a farlo un animale, d’istinto. Come un animale innocente Tore contemplava e viveva senza giudicare la vita, senza concedersi richieste, pretese o recriminazioni.

Non che non pensasse, anzi, spesso s’immergeva in lunghi momenti di riflessione. Le sue meditazioni erano intessute di osservazione e silenzi e le parole, parche e contate, quando gli uscivano di bocca servivano ad esprimere la sintesi di un pensiero. Sotto le apparenze di un ragazzo, Tore nascondeva il cuore di un vecchio, giacchè aveva precocemente rinunciato alle battaglie, alle contese della quotidianità. Rimaneva appartato nel suo angolo, nel quale c’era posto per il vitalismo dell’adolescenza, per la fatica del corpo, per la gioia di addentare il formaggio e bere acqua o vino, sudare, osservare il tramonto, le stelle, dormire d’un sonno pesante ristoratore, prendere unicamente ciò che il momento dava. Non chiedeva altro, non osava, altro non era per lui.

I suoi occhi, allora: intensi, pure toccavano il mondo con estremo riguardo, senza lasciare segno. Tore sembrava scolpito nella pietra, riusciva a restare immobile per un’ora, simile a un gatto; taciturno e strano, in paese le ragazze lo sfuggivano, forse per timore, e gli anziani gli volevano bene, lo salutavano quasi come un compagno.

Fin da bambino era stato così, unico e solo, attaccato alle sottane della nonna, che serviva con sottomissione. Era un orfano.

Suo gesto abituale era il diniego, ma in modo dolce; allora la testa piccola oscillava lentamente. Per dire sì gli bastava un battito di ciglia, un mezzo sorriso avaro. Sempre desiderava gli spazi aperti, l’aria fresca della collina odorosa di mirto e il silenzio della sera. In quel silenzio denso rotto ogni tanto dal grido di un volatile sentiva di essere vivo, in pace. Vaghe sensazioni, queste, assaporate lungamente per anni, durante la pastorizia, e quindi pensate.

Mio compagno è il pensiero, ripeteva tra sè e sè.

Dalla frase traeva tutta la sua possibile felicità.

Frequentò la scuola quel tanto (poco) che gli permise di scrivere e far di conto; di libri non seppe nulla, nè mai provò rimpianto di sapere o invidia per gli studenti che chiacchieravano nella piazza del paese quando ritornavano a casa, in vacanza, dalle varie città. Gli bastava la collina.

Viveva portando al pascolo un piccolo gregge di proprietà altrui, e sterrando patate, zappando la terra di un lontano parente, e del suo minuscolo orticello e del latte di una capra.

Mio compagno è il pensiero, ripeteva, non certo per filosofare.

Non frequentava il bar della piazza, non giocava al pallone, del resto non ne avrebbe avuto il tempo, nè discuteva di politica. Nacque con i sensi tesi a captare il volo dei corvi e lo stormire del vento, non le voci umane sature di avidità.

Fu protetto dal male, che non commise. Ebbe le mani rosse, gelate, scorticate dalla fatica, spesso un pasto unico al giorno nelle cattive annate quando la grandine aveva distrutto parte del raccolto. A quindici anni fu colpito da una febbre virale che tenne sospesa la sua vita per quasi un mese; in quel mese la nonna recitava il rosario senza interruzione. La nonna poco capiva di Tore, v’era qualcosa da capire? Da lei lui non ebbe mai un bacio.

Eppure Tore sapeva, non ignorava la dolcezza: sapeva osservare la natura per trarne piacere, costruirsi uno zufolo e cantare, addormentarsi come un sasso senza nessuna amarezza. A sera pregava la madre, morta di parto, quasi che la giovane donna mai conosciuta fosse una dea. Sì, sua madre era la madre divina, ancor più divina in quanto non conosciuta. Da lei fu protetto.

Ebbe una gioia insperata, a diciotto anni: una bella fermò su lui lo sguardo, una domenica, durante la passeggiata lungo il viale che dalla piazza conduceva fino all’ultima casa dell’abitato, una modestissima casa di pietra, la sua. Fu lo sguardo che lo incendiò.

Ebbe un dolore: lei, già fidanzata, dopo pochi mesi divenne sposa.

Fu invitato anche Tore alla festa nuziale, giacchè fu invitato l’intero paese, i signori sanno essere signori, quando la parte lo richiede. Al banchetto il ragazzo gustò il maiale arrosto, bevve Vernaccia, si ubriacò per la prima volta. Quella notte, la nonna lo sentì piangere stranamente.

Non molti, dunque, nè salienti, gli episodi costitutivi della sua esistenza: piogge torrenziali sulla camicia, il camino acceso, odore di farina, che altro poi… un sentimento minimo perchè invisibile, bruciato. Esistono sentimenti minimi? Lui se lo chiedeva in continuazione, ed il pensiero suo compagno non conosceva la risposta, per la prima volta.

A diciotto anni e mezzo Tore partì carabiniere, militare di carriera nell’Arma. Figlio mio, gli suggerì la nonna, devi pensare al sostentamento, all’avvenire; terra nostra non ne abbiamo, e così… vedrai che ti prendono. Tore fu soddisfatto della proposta e acconsentì.

Lasciò il paese senza rimpianti, per tornarvi in licenza, con la divisa. Poi ripartì. Soltanto allora comprese quanto gli eran mancati i silenzi della collina, i richiami dei corvi, le pecore, e uno sguardo rubato lungo il viale, soltanto un anno prima, distante ormai, tanto distante.

Tutto il nuovo che vide, lontano dalla Sardegna, in Continente, gli parve di conoscerlo già. Non si stupì delle città, di autovie ampie, del servizio di pattuglia su strada di notte e di giorno. Accettò volentieri i pasti in comune, in caserma, che ruppero le sue abitudini di solitario. Accettò il peso del mitra, della pistola al fianco, gli ordini da eseguire alla lettera, ogni disciplina. Gli parve che tutto gli fosse stato predetto in collina, gli parve di aver accettato l’0bbedienza con la o maiuscola restando seduto presso un cespuglio, presso una pianta di fichi d’India. La natura con le stagioni mutevoli era stata una saggia maestra per lui; da essa aveva appreso docilmente a lasciarsi andare, a scorrere con il tempo in lievità, a sopportare la tormenta in attesa del nuovo sole, a cedere, a confidare. Madre natura…

In città contò un’infinità di negozi uguali, ovunque si vendeva la stessa merce, e tanti negozi gli sembrarono inutili. La gente comprava e comprava con ansietà, con la stessa ansietà con cui la nonna conservava le quattro sue povere cose: bottoni, spago, pantofole vecchie. Tutti sono attaccati a qualcosa, diceva al suo pensiero, il quale doveva essere da lui istruito sulle stranezze del mondo. Tutti attaccati a qualcosa, ma io, io, non so, nulla mi attrae, non così tanto al punto da comprare. Ciò che ho sognato non si può comprare nè vendere. L’amore non è in vendita. E neppure il dovere.

E ricordava uno sguardo femminile, uno unico dolcemente abissale.

Ogni tanto gli doleva in petto la ferita del sentimento minimo bruciato. Ogni tanto si ricordava di aver amato invano. Pensava e ripeteva: a questo non c’è rimedio, è come quando non piove e una pianta si secca. È come quando uno muore. Anch’io sono un po’ morto.

E anche alla morte si rassegnava. Non separava la morte fisica da una morte meramente figurata, simbolica, le viveva entrambe realmente, lui orfano sempre con la morte invisibile al fianco, sempre privato di sguardi e carezze, sempre e per sempre, ora lo sapeva, immerso nel lutto dell’amore segreto negato che non scompare.

Solo ogni tanto gli doleva in petto una ferita…

Trascorsero due anni. Tore fu comandato a prestare servizio in una piccola stazione dei Carabinieri in montagna. Si trattava di un paesetto veneto ai piedi delle Dolomiti, e se ne rallegrò; la città, tutte le città, lo facevano sentire un esiliato, il paese invece era la terra, la madre terra, costituiva un desiderato ritorno all’infanzia.

Giunse sul posto con il buio della sera, con un treno locale che ogni dieci minuti si fermava. La neve silenziosa scendeva a larghi fiocchi, l’aria cruda dell’inverno lo fece rabbrividire, si gelava. Tore aveva viaggiato un intero giorno per arrivare al paese e durante quelle ore aveva dormito a tratti, con una strana sensazione nel sangue, un malessere inconsueto lungo la schiena e nella mente un’apatia che lo lasciava indifferente perfino al paesaggio, quando si decideva ad osservare la regione dal finestrino dello stretto scompartimento. Indifferente ai compagni di viaggio, al panino di salame masticato a fatica, senza nessun sapore. Che mai gli succedeva? Aveva anche bevuto poco, adesso la gola secca lo faceva tossire. Il freddo gli penetrava nelle ossa. Indossava una nuova divisa non sufficiente a proteggerlo dal clima molto rigido, troppo larga; calzava scarponi duri, che gli procuravano un lancinante dolore alle dita dei piedi.

Avanzava lungo la strada affondando nella neve. Si fece indicare il percorso da un anziano passante e giunse alla caserma, un’abitazione isolata, dove brillava una luce ad una finestra del pianterreno con gli scuri ancora aperti. Era atteso.

Un anziano maresciallo fungeva da piantone. Lo ricevette con cordialità, sebbene lo scrutasse con occhio critico. Al vecchio militare non sfuggirono gli occhi gonfi e il pallore del carabiniere. Quanto è giovane, pensò, dovrò insegnargli tutto. Tanto giovane, ed è ammalato, certo è febbricitante.

Accomodati, lo accolse, mentre l’altro restava sull’attenti; siediti, sei stanco? Hai cenato?

No, signor maresciallo.

Come stai, hai una cera… che ti senti?

Nulla, signor maresciallo.

Eh, hai una cera… ripetè il superiore.

Tore taceva. Si sentiva scoppiare la testa, non voleva dirlo e non poteva menzionare gli scarponi, si vergognava. Dolori da femmina, ripeteva tra sè.

Il maresciallo si preoccupava con atteggiamento paterno. Gli disse: in cucina trovi una pastasciutta in frigo, basta riscaldarla, e una braciola di maiale, e radicchio del nostro orto. E un buon bicchiere di rosso. Sì Mulas, tutto bene, i tuoi incartamenti sono in ordine; vuoi un’aspirina? Ti darò un’aspirina, credo che tu ne abbia bisogno. Poi fatti una bella dormita, domani starai benone.

Sì signor maresciallo.

Il maresciallo Melchiorri restò a guardarlo mentre cenava, familiarmente. Condivise con lui due dita di Merlot, e intanto gli chiedeva del luogo d’origine, della famiglia.

Siamo qui per servire il Paese, concluse in fine, ritrovando l’atteggiamento formale consono al suo ruolo. Mio figlio è capitano a… capitano Melchiorri – scandì con orgoglio – è conosciuto, è un asso, attivo nella lotta al terrorismo…

Tore, se non fosse stato imbambolato e morto di stanchezza, sarebbe scattato sull’attenti, per deferenza. Restò invece con la forchetta a mezz’aria, oppresso da un peso troppo grande per i suoi giovani anni oscuri, che non avevano conosciuto l’epica sanguinosa della storia.

Servire il Paese, balbettò un’ora dopo tra le coperte, nella camera al primo piano. Servire il Paese. La sua coscienza si annebbiava. Cadde nel sonno.

Stava già meglio, il giorno seguente, soltanto due dita dei piedi gli dolevano, tumefatte e leggermente sanguinolente per le bolle di pus scoppiate, che lasciavano scoperta la carne viva. Acquistò una pomata, garze, cerotti, si fasciò. Maledetti scarponi, porca miseria. E fuori, quanto freddo. Il pensiero andava al Sud, alla sua isola, al paese. Laggiù, appena un mese addietro, c’era stato un tempo d’estate postuma, straordinaria. Era fiorito un pero, sullo stradone, la nonna l’aveva raccontato al telefono con voce squillante, euforica, da ragazzina: tutti ne parlano figlio mio, segno buono, viene la fortuna, aveva esclamato.

Alla fortuna lui non credeva più. La fortuna è poca e bisogna strapparla con i denti. Rivedeva con rimpianto il fiumicello che lambiva le quattro o otto case, rivedeva sognando i fichi d’India, il sole a picco nelle estati roventi, e lei, lei…

Il pensiero andava al via vai brulicante della piazza nell’ora del mercato, le pecore con i campanacci al collo passavano e cacavano lasciando quelle palline nere in terra come regalo; rivide la figura segaligna del vecchio banditore che soffiava dentro il corno e poi gridava a piena voce, secondo un antico rito mai dismesso nel loro minuscolo borgo:

E SI ETAT CUSTU BANNU

IN PIATTA DE SU MERCAU

EST ARRIVADU…

(…per chi ascolta questo bando, al mercato è arrivato…)

e giù una lista di prodotti mangerecci, primizie dell’orto, e poi seguiva l’enumerazione di abiti, pellame, vasellame.

Al ricordo ne sorrise. Si riscosse. Restare laggiù, ecco la fortuna che rincorreva. Ritornare lì dove il fascino delle montagne sotto la luna lo prendeva per rapirlo, per togliere ogni dolore. Ma sarebbe mai accaduto? La sorte con un sorriso sardonico l’aveva sbattuto qui e là, dove le era sembrato meglio, senza chiedere il suo consenso.

Ritornò al presente. Fuori il paesaggio bianco gli era ancora estraneo. Sospirò. Piantone solitario, attendeva con paziente monotonia che le ore scorressero, intanto si destreggiava al computer, il cui funzionamento gli riusciva ancora ostico. Aveva imparato velocemente il programma word di base durante un corso accelerato, ma aveva sempre amato la lentezza, le fatiche gravose compiute senza fretta in campagna, dove il tempo è scandito dai ritmi naturali delle stagioni e quindi digeriva male l’informatica. Si sarebbe adattato, come sempre.

Il maresciallo non esigeva troppo da lui, bastava che spalasse la neve intorno alla caserma, rispondesse al citofono, al telefono di portineria e prendesse appunti; bastava che sbrigasse la corrispondenza assegnatagli giornalmente e non dimenticasse per piacere la stampante accesa, accidenti!, diversamente si seccava l’inchiostro. Amen. Nulla di impossibile.

Il terzo giorno di permanenza nel paese, all’ora del meriggio, Tore uscì in perlustrazione. S’era bendato i piedi dentro gli stivali e li sbatteva con forza sul terreno ghiacciato; sbatteva le mani guantate una contro l’altra. Il cappotto non scaldava a sufficienza.

Un solicello anemico si tuffava tra due picchi di monti.

Il carabiniere raggiunse la locanda al crepuscolo. Finalmente al caldo! Dentro si stava bene. Sul brusio di sottofondo si stagliava netta la voce urlante di un ubriaco. Qualcuno insultava qualcuno.

È Franco Biagion, disse l’oste.

Biagion, detto Gnocco, passava per matto.

Capo el se lo cioghi via, fa solo casin, alza le mani; capo beva una grappa con noi, esclamarono tante voci assieme.

Non posso, come accettato, si schermì Tore. Non posso, sono in servizio.

Eh va’, ma che servizio e servizio, beva che si scalda.

Bevve. Lo invase il calore dell’alcol e fu preso dal gruppo di gente allegra e amichevole, curiosa; venne interrogato, rispose, ricevette consigli dai più anziani e dai petulanti. Si sentì accettato, rinfrancato. Iniziava a distendersi. Sembrava ancor più giovane ogni volta che mostrava il bianco dei denti con un sorriso prima timido, poi sempre più sicuro, accattivante.

Biagion taceva. Quindi, cominciò a squadrare il carabiniere con occhio torvo, a gridare ripetutamente: con lui no, con lui no, no, no, no…

Poi si calmò di colpo, si lasciò condurre a casa con docilità, appoggiandosi come un bambino al braccio robusto del carabiniere.

E dopo, che fare? Quello era un quieto paese, circondato da boschi di castagni, un luogo tranquillo dove non accadeva nulla di speciale, nulla di inaspettato o conturbante. La fatica quotidiana la conoscevano tutti, altro non v’era da sapere.

Dopo in caserma restava da spedire la posta elettronica, preparare un po’ di cena, la polenta nella pentola di rame, girare e rigirare la farina gialla con un cucchiaio di legno meticolosamente, cuocere due salsicce nel vino. E cenare con il vecchio maresciallo solitario, che lo voleva a tavola con sè. L’appuntato si godeva ancora le ferie, sarebbe ritornato fra una settimana, in lui forse Tore avrebbe trovato un amico. E Tore ci contava. Tre carabinieri per un migliaio di anime abituate al lavoro, al cospetto di una montagna dura ma benigna. Anime immerse in tradizioni rassicuranti.

Dunque tra breve sarebbero stati soli, il maresciallo e il ragazzino, il burbero e il taciturno; avrebbero costituito una minima famiglia – con le dovute distanze per carità, il superiore resta il superiore anche intorno a un tavolo – con empatia e sentimento sottinteso; un tavolo con la tovaglia, e il pane a fette nel paniere, la televisione accesa, danno quasi un sapore di casa. Come essere nella sua abitazione di pietra, laggiù…

O.K. I due si ritrovarono attorno al tavolo di cucina.

D’improvviso Tore si scoperse stanco, sonnolento. Forse gli restava un residuo di influenza nelle ossa. I sensi vigili si allentavano, così come si era allentata la tensione dei due giorni emotivamente intensi appena trascorsi; tensione relativa alla novità della destinazione e dell’incarico, ma anche tipica del suo essere selvatico, guardingo. Venne scodellata la polenta. Il maresciallo stava versandosi da bere allorchè li sorprese una scampanellata al portone d’ingresso. Tore sollecito si alzò. Vado, disse.

Quasi incosciente, quasi in trance, allucinato, senza pensare, senza malizia, come se si si trovasse per davvero nella sua abitazione di pietra nel villaggio natio (potenza della suggestione!) il ragazzo uscì dalla stanza, attraversò il corridoio, premette automaticamente il pulsante della porta d’entrata, la spalancò.

Che fai, domanda chi è, sei impazzito? urlò il maresciallo strabiliato; con sesto senso e mestiere portò la mano alla pistola che si trovava, innocua, nella fondina, appoggiata sopra una credenza. Inutilmente.

Tore fu accolto da una fulminea raffica di mitra. Tre sicari mascherati cercavano Melchiorri, padre del capitano attivo contro il terrorismo, per “un’azione dimostrativa”, secondo la logica paranoica della lotta armata.

Lo trovarono, lo freddarono nella cucina intima e familiare dove la polenta bollente ancora fumava nei piatti.

La sorte prese anche Tore, lo colse per primo, come un’antica e innocente vittima sacrificale.

Il ragazzo spirò in pochi minuti. Fece a tempo a pensare: non sento dolore, non fanno male neppure i piedi negli scarponi.

Qualcosa di lui si librava nello spazio infinito, dove non avrebbe mai più perduto nè guerre, nè patria, nè donne, nè amore.

Di lui restò il nome sui giornali a lettere cubitali per un giorno. Restò il compianto rituale degli alti ranghi dello Stato, in televisione, e il dolore intenso di carabinieri conosciuti e sconosciuti. Restò il brusio tremante e commosso dei compaesani nella piazza del paese d’origine, dove tutti avevano conosciuto Tore, giovanissimo figlio di tutti. Più persistente e inconsolabile restò il singhiozzo rauco della nonna. Poi nulla, più nulla.

La cronaca si riempie inesorabilmente di altre storie. L’oblio umano è una forma di crudeltà.