Andrea Zanzotto

| | |

La bella vita del critico d’arte / 16

di Giancarlo Pauletto

 

Si trattava – era il 2009 – di andare a Pieve di Soligo, da Andrea Zanzotto, per verificare la possibilità di costruire una mostra fondata su una o più cartelle di grafica che il Poeta aveva realizzato negli anni con vari suoi amici pittori e incisori; la mostra poi avrebbe potuto essere completata con un gruppo di ritratti del poeta stesso, fatti da autori quali Mario Schifano, Tullio Pericoli, Pier Paolo Pasolini o anche il padre Giovanni Zanzotto, che era pittore e che poco prima del 1940 aveva ritratto il figlio in un nitido olio su carta il cui interesse andava oltre la semplice testimonianza biografica.

Ofelia mi invitò ad essere della partita: se la cosa fosse andata in porto, avrei dovuto presentare la mostra, era quindi opportuno che partecipassi alle scelte.

Le quali non si rivelarono facili.

All’efficienza con cui Marisa Michieli, la moglie del Poeta, si muoveva tra le carte, non sembrava corrispondere la volontà di Zanzotto, che era vicino ai novant’anni e se ne stava fermo, infagottato e molto sulle sue in poltrona, con la bocca piegata all’ingiù al modo di chi avesse il tutto “in gran dispitto” – come già aveva scritto un suo eminente collega fiorentino, settecento anni prima.

Si videro alcune cartelle di grafica, ogni tanto il Poeta cercava di dire la sua con qualche mezza parola ma senza grande successo, la cosa si stava facendo oltremodo imbarazzante ed io, se devo dire la verità, mi rotolavo tra le spine.

Finalmente saltò fuori una cartella in cui erano contenute dodici tavole geometricamente costruite di Giò Pomodoro e il poemetto Sovraesistenze di Andrea, uno dei suoi componimenti più ardui, tratto dal volume Pasque, pubblicato nel 1973.

Dissi che la mostra, per conto mio, era fatta, che quelle dodici tavole “geometriche”, cioè da “geometra”, si accostavano benissimo agli oltre cento versi del poemetto: il geometra misura la terra così come la poesia “collauda la realtà” – parole, quest’ultime, di Zanzotto -; i versi, opportunamente suddivisi, avrebbero accompagnato con un testo densissimo ed estremamente suggestivo una progettualità grafica che, apparentemente lontana dalla “logica” del poemetto, in realtà ne svelava metaforicamente l’interna struttura, che non era – come perfettamente aveva già scritto Fernando Bandini – quella di un significante abbandonato a se stesso, ma quella di una “rete” che cercava di addensare le possibilità del senso, così come il progetto architettonico dà forma a qualcuna delle possibili ipotesi costruttive.

Era, molto in sintesi, l’idea che cercai di sviluppare scrivendo l’introduzione alla mostra, che intitolammo Poetare-Progettare; la mostra stessa risultò poi, a detta di alcuni, godibilissima tra testo, tavole e i vari ritratti di Zanzotto.

Il quale, infatti, apprezzò.

Fu accolto da un caldo applauso del numeroso pubblico, lentamente si accomodò, appoggiandosi al bastone, su una poltroncina al centro della sala, stette ad ascoltare – mi parve con grande attenzione – il tizio che si sforzava di spiegare il senso del poemetto, delle tavole e del loro accostamento, e che inoltre divagava anche sulla varia qualità dei ritratti che lo riguardavano, quello del padre che lo raffigurava già en poète, quello familiarmente atteggiato di Carlo De Roberto, quello tagliente di Pasolini, quello “alla rinascimentale” di Corrado Balest, quello più misteriosamente “impastato” di Mario Schifano, quello sguardante e giocoso di Giosetta Fioroni, i due liberi e sorridenti di Tullio Pericoli.

Quando, alla fine, mi accostai per salutarlo, fui accolto da un bellissimo sorriso: un sorriso di quelli che – lo dico o non lo dico? – significavano, in aperto, “grazie per la gentilezza e l’impegno” e, nascostamente: «Ma da dove viene costui? Tuttavia non mi parrebbe completamente vano. Ho visto di peggio».

 

 

Pier Paolo Pasolini

Ritratto di Andrea Zanzotto

pennarello su carta, 1974