Cercar fortuna, trovare futuro

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XVIII convegno annuale della Deputazione di Storia Patria

di Marina Silvestri

 

Moltiplicare i punti di vista attraverso i quali viene indagata la complessa storia di Trieste. Una necessità emersa dalle relazioni degli studiosi che hanno partecipato al XVIII convegno annuale di studio della Deputazione di Storia Patria per la Venezia Giulia, che ha avuto per tema Cercar fortuna, trovare futuro. Uomini e donne, nazioni, comunità, culture, religioni nellAlto Adriatico. Nell’introdurre il simposio, Grazia Tatò, presidente della Deputazione, ha illustrato il lavoro svolto sulle migrazioni storiche dalle diverse associazioni promotrici: L’Associazione Nazionale Archivistica Italiana, Sezione Friuli Venezia Giulia, l’Istituto Giuliano di Storia, Cultura e Documentazione, la Società istriana di Archeologia e Storia patria, il Centro Studi Albert Schweitzer. Il primo intervento di Antonio Trampus, docente alla Ca’ Foscari di Venezia, ha fatto il punto sulle ricerche in corso a livello internazionale dall’università di Helsinki sulla categoria del portofranco intesa in senso generale, ed ha ricordato che in Alto Adriatico, nel Mediterraneo e in Europa tali scali erano numerosi. Secondo Trampus, moltiplicare gli approcci rispetto a quello che siamo abituati a fare concentrando l’attenzione sulla sola Trieste, dare spazio alle contraddizioni, può essere interessante anche per Trieste, dove la storia è quasi sempre raccontata attraverso miti fondanti. La domanda cruciale, ha detto, è «il portofranco è stato un vantaggio per la città e per l’Alto Adriatico o invece è stato uno svantaggio per altre esperienze? è stato una risorsa o un ostacolo all’integrazione di uomini donne nazioni culture religioni?» Per Trampus i miti vanno intesi come espressione della funzione civile avuta dalla storiografia che, «raccontando ciò che l’Austria aveva fatto per Trieste, voleva mostrare anche ciò che l’Italia avrebbe dovuto fare». I portifranchi, ciascuno con prerogative diverse erano tutti accomunati da una caratteristica, la «condizione di separatezza e la specialità giuridica rispetto al contesto geografico, istituzionale, culturale al quale appartenevano». La ricerca storica oggi si interroga su quanto questa separatezza fosse inclusiva per gli stranieri, ma escludente per gli abitanti delle comunità del territorio, in primo luogo sotto il profilo economico. Trampus ha ricordato che Adam Smith considerava il portofranco una zona di privilegio commerciale e giuridico e, in quanto tale, incompatibile con il principio moderno del libero commercio; inoltre che a metà del Settecento l’economista napoletano Carlo Antonio Broggia, aveva evidenziato come il portofranco andava a favorire principalmente i forestieri e non le popolazioni locali. «Non è ‘controstoria’ – ha osservato Trampus – ma moltiplicazione dei punti di vista, che consente di attribuire dignità storiografica a centri di interesse non abbastanza considerati». Sotto questo profilo, il relatore ha parlato delle iniziative intraprese da commercianti triestini a metà del ‘700 per sondare percorsi alternativi per le merci, via terra e lungo il Danubio.

Complementare è stata la relazione di Federica Furfaro dell’Università di Genova che ha parlato su Le assicurazioni e la codificazione del diritto marittimo mediterraneo nel cantiere Alto Adriatico di fine Settecento, spiegando come lo spostamento del baricentro dalla terra al mare, con l’istituzione del portofranco si collochi in un preciso programma istituzionale di sviluppo dei traffici mercantili in Alto Adriatico e la normativa asburgica riguardante il diritto marittimo riveli questo programma. Infatti, c’è la volontà di inserire nel diritto marittimo anche il settore assicurativo che si era sviluppato nel commercio marittimo piuttosto che in quello terrestre. Vengono elaborati più codici, il Ferdinandeo nel Regno di Napoli, uno dal Regno di Sardegna, uno dalla Serenissima che sarà l’ultima grande opera legislativa della Repubblica di Venezia, e l’unico a entrare in vigore, e quello promosso da Maria Teresa che non sarà mai sanzionato. Né entreranno in vigore i successivi per i quali si spendono nomi come Pasquale Ricci, Antonio de Giuliani, Pompeo de Brigido, Giacomo Francesco Maria de Gabbiati e in seguito Domenico Rossetti. Nel periodo napoleonico era entrato in vigore un Codice di Commercio che integrava il codice marittimo con quello terrestre, semplificandoli, e caduto Napoleone rimarrà in vigente nel Lombardo Veneto, in Tirolo, Alto Adriatico e la Dalmazia, mentre nel Litorale sarà abrogato, ma riemergerà come fonte consuetudinaria. Per la materia assicurativa, peculiarità dei progetti austriaci, avrà valore caso per caso, la polizza stessa.

Un altro aspetto della complessità della società triestina è emerso dagli interventi di Gianfranco Hofer e Andrea Wehrenfennig su Le scuole evangeliche a Trieste e nel goriziano. «Il trattamento riservato alle diverse nazioni non fu lo stesso per i luoghi di culto e le scuole che vennero aperti in tempi diversi», ha esordito Hofer, già insegnate a preside di scuole superiori, sottolineando come I luoghi di culto fossero anche ambienti di insegnamento anche linguistico. Di seguito, ha enumerato alcune tappe significative dei riconoscimenti: l’apertura della prima sinagoga cinque anni dopo la costituzione degli ebrei in comunità nel 1742, nel 1750 il primo luogo di culto comune di ortodossi greci e serbi; il costituitisi dei luterani nel 1750 come comunità gemeinde, definiti di confessione augustana nel 1778, poi gli elvetici che erano giunti da Venezia nel 1775 e sempre nel 1775 i calvinisti riformati. Gli elvetici acquistarono San Silvestro, mentre i luterani la chiesa del Rosario. «L’apertura delle scuole confessionali avvenne subito dopo – ha spiegato Hofer – e mentre l’atteggiamento di Maria Teresa rifletteva il clima delle precedenti guerre di religione, Giuseppe II che copiò la riforma dell’organizzazione dell’istruzione prussiana, fu un forte pungolo per la crescita delle scuole private con o senza diritto di pubblicità, ovvero di riconoscimento». Luterani ed elvetici arrivano per ultimi nell’istituire scuole confessionali, una scuola elementare privata serba nacque nel 1782 a cui fecero seguito le Scuole Pie Normali Israelitiche. Solo nel 1801 si aprì una scuola nell’ambito della comunità elvetica con lingue di studio tedesco e romancio, e una scuola fu aperta della comunità greca.

Gianfranco Hofer, ha messo in evidenza come il periodo delle Province Illiriche, seppur breve, abbia rappresentato un «ciclone», con l’introduzione dello studio delle lingue nazionali, del sapere scientifico-tecnologico e delle competenze commerciali, un fatto ha detto «a cui la nostra storiografica dedica poca importanza rispetto alla storiografia slovena e croata». E, dopo la Restaurazione, le idee portate della scuola napoleonica non furono cancellate. La scuola protestante, ha spiegato, rispondeva a una necessità di istruzione religiosa ed educazione culturale identitaria delle diverse comunità. Oltre a una scuola elementare fu avviata a Trieste nel 1835 una scuola professionale a palazzo Marenzi, come scuola delle comunità luterana ed elevetica. Fondatori della scuola evangelica triestina furono famiglie che contavano in città, come il luterano Ector Ritter von Zàhony appartenente ad una famiglia di Francoforte sposato con Amelia Rittmeyer che successivamente spostò l’attività a Gorizia, dove sovvenzionò la chiesa luterana di (oggi) via Diaz frequentata da militari, impiegati statali e operai delle sue aziende e manifatture, mentre la figlia Eveline fondò a Villa Russiz di Capriva una scuola che permettesse alle giovani ragazze di formarsi una professionalità. Venne inaugurato inoltre a Trieste un ospizio per ospitare anche gli immigrati. La caratteristica principale della scuola evangelica triestina, fu quella di essere una scuola aperta al territorio. Oltre a dare l’istruzione primaria ai figli di confessione riformata, coloro che provenivano dalla Svizzera, o di confessione luterana se arrivati da Germania e Austria, per la qualità dell’offerta formativa, l’insegnamento linguistico e di materie tecniche e commerciali, attirò l’interesse di molte famiglie non protestanti: anglicani, ebrei e cattolici. L’ultima iniziativa di tipo pedagogico nata nel 1919 fu l’istituto per non vendenti Cecilia Rittmeyer.

Andrea Wehrenfennig, i cui nonni sono stati insegnanti della scuola, con alle spalle trent’anni di esperienza di bibliotecario, nel suo intervento ha parlato delle Famiglie triestine nei documenti delle Scuole evangeliche riunite, presentando i dati ottenuti consultando gli archivio della scuola e i registri anagrafici della comunità, e ottenendo una banca dati di 5000 allievi nel periodo 1835-1918. Un quadro che mostra la diversità ampia e complessa delle famiglie triestine. Gli allievi non sono solo luterani ed elvetici, ma anglicani, cattolici, armeni, greci, ebrei. «C’è una grande biodiversità. È interessante,- ha affermato Wehrenfennig – perché in questo spaccato della società triestina c’è il proletariato tedesco, ma è mancante il proletariato italiano e sloveno mentre l’”élite del potere” e la piccola borghesia di tutte le religioni sono presenti». Tanti sono i consoli e i figli di consoli e intrecciano legami con figli di commercianti e agenti di commercio con magazzini al porto vecchio; persone provenienti da Svizzera, Germania, Italia, Francia, Inghilterra, Scozia. Sono riconoscibili flussi di lavoratori specializzati engineers inglesi e scozzesi, così erano qualificati i tecnici dei motori a vapore nelle navi del Lloyd e della marina austriaca; I caffettieri, i pasticceri e gli albergatori dei Grigioni; gli ammiragli, i dirigenti di banca, i dirigenti e i lavoratori delle ferrovie statali e private che arrivavano dalla Boemia, dalla Slesia, dalla Moravia….«Per gli allievi non protestanti c’erano regolari lezioni di istruzione cattolica e un insegnante di religione ebraica. La diversità veniva incoraggiata». Wehrenfennig si è soffermato poi sui matrimoni misti fra protestanti e cattolici e sulla frequentazione della scuola in cui si sono avvicendate più generazioni. Fra le famiglie più presenti a scuola e più note i protestanti Hausbrandt, Escher, Boisdechesne, Ganzoni, Strudthoff; gli anglicani Greenham e Baker, gli ortodossi greci e serbi Galatti, Economo, Eulambio, Di Demetrio e Circovich, Vucetich, Teodorovich, gli ebrei Basevi, Almagià, Vivante, Jacchia, Brunner e Frigessi, i cattolici Albori, Parisi, Idone, Cosulich, Kugy, Devescovi, gli sloveni Gorup e i croati Giurovich e Petrovic.

La ricercatrice Caterina Karadima, ha trattato dell’Attività economica e sociale dei greci nell’800: «…Noi che facciamo parte della popolazione di questa Fedelissima Città e con Essa confusi quali suoi cittadini…». I Greci a Trieste nel XVIII e XIX secolo. Trieste, ha detto è stata «uno dei luoghi centrali della diaspora greca per la dinamica presenza economica dei cittadini ottomani che hanno contribuito al commercio adriatico asburgico. Commerciavano in legnami, foglie di tabacco, frutta secca, spugne, carta, foglie di palma, riso, patate e spezie. La comunità raggiunse il suo apice con la rivoluzione greca per poi diminuire fino a ridursi nel 1900 a sole 350 presenze. A questa riduzione demografica fece da contraltare però un rafforzamento delle famiglie entrate nell’élite di potere. Si distinsero i Ralli, i Galatti e gli Economo.

Aleksander Panjek, dell’Università di Trieste, ha esposto la sua ricerca su Lammutinamento della Loredana e la fuga dei galeotti da Capodistria in Carso e a Trieste. I fatti trattati riguardano una galea veneziana diretta a Corfù, e risalgono al 1605 a dieci anni dallo scoppio della guerra degli uscocchi. Una vicenda che sembra una storia romanzata, ricostruita attraverso i verbali degli interrogatori dei contadini e dei processi, che evidenzia il ruolo delle giurie popolari formate dai capi dei villaggi e le provenienze dei galeotti in particolare dal Veneto e dall’Italia centro-settentrionale ma anche dal Ponentino, così era chiamato il Tirreno, dalla Turchia e dalla Bosnia. Nella successiva relazione, lo storico Giuseppe Trebbi, dell’Università di Trieste, ha parlando de Le migrazioni dal Friuli allIstria in età moderna, ha posto l’accento sulla carica polito-ideologica assunta nel ‘900 da una materia che era stata oggetto di studi scientifici. Il fenomeno dell’emigrazione di popolazione provenienti sia dalla Patria del Friuli che dal patriarcato di Aquileia e soprattutto dalle vallate della Carnia, risale al ‘500 e al ‘600. La meta è l’Istria veneta costiera e l’Istria interna austriaca. Questo flusso di popolazioni era stato studiato dall’erudito Giacomo Filippo Tomasini, vescovo di Cittanova, appartenente all’Accademia veneziana degli Incongniti, osservando che l’Istria è abitata da cinque nazioni e fra questa la più numerosa è quella degli slavoni che altri chiamano slavi, poi i gradesi e soprattutto i popoli della Carnia: industriosi e persimoniosi, che lavorano lana e tessono, fabbri, scalpellini tagliapieta, magnani, parsimonia. A questi si uniscono i friulani, che poi ritornano stagionalmente al paese. La presenza di sangue carnico in Istria diventa un tema di ricerca dalla fine Ottocento alla prima guerra mondiale da parte di Bernardo Benussi, Bernardo Schiavuzzi, Camillo de Franceschi e Giannandrea de Gravisi, mentre in un saggio del 1922, pubblicato nel bollettino della Società Geografica Italiana si parla dell’ «Italianità sopita e non spenta in un’altra provincia redenta, l’Istria» Così la ricerca sui cognomi in Istria, diventa una questione di carattere politico-nazionale e non solo scientifico.

A seguire gli interventi della giornalista Marina Silvestri, autrice del volume di recente pubblicazione Lassù nella Trieste asburgica. la questione dei regnicoli e lidentità rimossa (v. Il Ponte Rosso, sett.2017) e Pierpaolo Dorsi, direttore della Soprintendenza Archivistica del Friuli Venezia Giulia, che hanno focalizzato la presenza di emigrati dalla Penisola italiana nel corso dei secoli, una pagina che è emersa per la prima volta durante un convegno sulle forme della storia dell’emigrazione italiana promosso dagli Archivi di Stato, ha ricordato Dorsi, quando l’Archivio di Trieste ha contribuito con i materiali di una città da dove non si partiva per emigrare, ma meta di emigrazione di connazionali.

Luca Giuseppe Manenti e Martina Schuster, hanno illustrato il progetto di mostra itinerante per le scuole a carattere scientifico e divulgativo intitolata Le nazioni gli uomini e i gruppi. Trieste Mosaico di genti (XVIII-XX sec.) in allestimento. Undici pannelli, ciascuno dedicato ad un gruppo radicatosi a Trieste collegato alla biografia di una personalità di spicco. ha chiuso il convegno Giovanna Paolin, direttrice delle pubblicazioni della Deputazione (di cui le relazione della giornata entreranno a far parte).