Il jihadista della porta accanto

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Khaled Fouad Allam, sociologo e politico di origine algerina, nato a Tlemcen, dopo aver vissuto in Marocco, Algeria e Francia è cittadino italiano dal 1993. Ha pubblicato numerosi saggi e romanzi sui rapporti tra il mondo arabo-islamico e Occidente. Già editorialista di Repubblica e La Stampa ora collabora con Il Sole 24 Ore. Deputato del Parlamento italiano nella XV legislatura, è stato membro della Commissione Affari Costituzionali della Camera. È stato insignito del titolo di Dottore Honoris Causa in Sociologia dell’Università Riccardo Palma di Lima per i suoi lavori sull’Islam contemporaneo e la questione Mediterranea. Ultima sua fatica Il jihadista della porta accanto. Isis, Occidente, edizione Piemme. Abbiamo dialogato con lui

 

 

In questo periodo socialmente caldo vogliamo sentirla sull’attentato successo a Parigi nella sede di Charlie Hebdo, che mette in evidenza un fenomeno sottovalutato e rimarca la forza occulta del fondamentalismo islamico; cosa ci dice?

L’attentato del 7 gennaio che ha un alto valore simbolico, perché – come ho più volte affermato – Parigi non è una qualunque capitale, è lì che storicamente si sono svolte le grandi questioni relative all’unità e all’uguaglianza.

Il fondamentalismo islamico conduce anche una guerra culturale fra due concezioni del mondo e del soggetto: un mondo libero con un soggetto libero contro un mondo completamente imprigionato da una religione che mescola politica e mistica in nome di uno stato di tipo valoriale come lo sono qualunque tipo di dittature e di totalitarismo. Sembra paradossale, ma all’alba del XXI secolo il totalitarismo continua ad attrarre, lo vediamo nelle file di musulmani – convertiti o no – che raggiungono il mondo dello jihadismo, sembrano cavalieri dell’anti – libertà. Ma tutto questo non nasce il 7 gennaio, gli esperti dell’Islam politico sanno benissimo che durante tutto il XX secolo una parte dell’Islam si è deliberatamente spostata su posizioni fondamentaliste o neofondamentaliste, e questo sin dal 1929, quando si creò l’associazione dei fratelli musulmani, poi diversi movimenti radicali, come Al-Queida o i salafisti, fino ad oggi con l’Isis, questo nuovo stato dell’Islam chiamato Califfato.

Nel suo ultimo libro Il Jihadista della porta accanto pubblicato da Piemme, giunto dopo pochissimo alla sua seconda edizione, dedica il suo primo capitolo a Khaled, ragazzo franco-alegerino, primo jihadista europeo figlio del disagio… è da qui che dobbiamo partire per cercare di capire?

Sono stato il primo a individuare nella figura di Khaled Kelkal il prototipo di euro-jihadista. In parte il suo percorso è tipico dei ragazzi adolescenti o post-adolescenti che, dopo un percorso tortuoso a scuola (anche se nel caso di Kelkal era promettente), raggiungono il terrorismo di matrice islamica.

Questo giovane ragazzo franco-algerino, dopo un periodo di delinquenza (furti vari, attacco a mano armata, soggiorno in prigione) si re-islamizza attraverso un fratello musulmano che lo inciterà a entrare nel terrorismo. Fu lui a mettere una bomba nella linea della metro più frequentata di Parigi (Saint Michel) nel 1994, otto morti e più di 150 feriti. Ma attenzione: oggi le cose sono più complesse, le tipologie di adesione allo jihadismo sono variegate: ci sono settori della borghesia toccati dal fenomeno che raggiungono l’Isis e i ragazzi sono spesso laureati. Questo significa che non esiste un blocco sociale unico per capire il fenomeno, perché in questi ultimi vent’anni esso è divenuto trasversale. Questo è dovuto probabilmente al fatto che la narrazione politica dello jihadismo ha un potere di attrazione estremamente potente, in grado di manipolare la psiche umana esattamente come il fenomeno delle sette religiose.

Ci chiarisce cosa e chi sia l’Isis?

La grande novità dell’Isis consiste nel fatto che questa parte del radicalismo islamico ha trasformato il militantismo dell’Islam politico, la sua contestazione in un istituzione che si è strutturata in un nuovo stato, con un esercito, una polizia, dei tribunali, delle scuole. È semplicemente uno stato, totalitario ma pur sempre uno stato, che parte dell’Iraq, va in Siria e cerca di propagarsi oggi in Libia. Ricordo che l’Isis si chiama anche Califfato mondiale e si rifà ad una vecchia teoria della geografia islamica medioevale: Dar Al Islam, che significa la “terra” o la “casa” dell’Islam.

Secondo alcune correnti dell’Islam la terra dell’Islam esiste là dove ci sono dei musulmani.

Questo libro lo dedica a sua madre e a suo padre che le hanno insegnato un altro Islam, molto diverso da quello che viene confuso con la situazione attuale. Ce ne parla?

La dedica che ho fatto ai miei genitori pone il problema della trasmissione della memoria. I miei genitori mi hanno insegnato un Islam legato a tradizioni culturali millenarie, mentre oggi quello che fa default è l’assenza di trasmissione della memoria fra genitori e figli. I figli non si riconoscono più nella memoria dei genitori perché la cultura non c’è più, si è dissolta lungo i percorsi della post modernità e dell’immigrazione, perciò lo jihadista è una figura tipica di chi ha perso ogni riferimento e dunque se li va a cercare nei punti più oscuri dell’Islam politico.

Nel discorso di Martha Nussbaum al Nonino, la filosofa sottolinea che “viviamo in un periodo che è una sfida per l’umanità come non lo è mai stato in anni recenti, un periodo che mette alla prova i valori della comprensione umana, il reciproco rispetto e la compassione” ci dice il suo punto di vista?

Certo, la crisi attuale è una crisi di civiltà, tutti i paradigmi sono da rivedere, mi fa pensare a Cartesio quando disse, nelle sue sei meditazioni metafisiche “Cosa so? Un nuovo sapere è da inventare, in grado di accompagnare un mutamento epocale”. Le problematiche come la globalizzazione e la diversità culturale hanno bisogno di un nuovo pensiero, semplicemente perché siamo entrati nell’età dell’universalismo post-occidentale, che non significa la fine dell’occidente ma un occidente in grado di trovare un equilibrio fra globalizzazione e diversità delle culture che vivono oggi sullo stesso territorio di una stessa nazione.

Dicotomia tra mondo occidentale e orientale è un concetto quasi obsoleto, visto che il mondo si sta contaminando, compenetrando; ma se dovesse dire quale sia l’elemento identificativo del mondo orientale cosa direbbe?

Non esiste più né Oriente né Occidente, ma esiste un Occidente in Oriente e un Oriente in Occidente, la circolazione delle idee è tale, l’omologazione dei comportamenti, dei costumi ha ridotto parecchio la frontiera fra Oriente e Occidente, oggi certamente sarebbe difficile riscrivere Madame Butterfly di Puccini, il Giappone è un vecchio ricordo e l’oriente musulmano non è quello di Pierre Lotì o di Delacroix, i cavalieri arabi sono anche loro un vecchio ricordo e la durezza della violenza odierna ha soppiantato tutto, forse bisognerebbe ricostruire quel Giappone caro all’occidente dell’Ottocento. Credo che il modo oggi sia completamente disorientato, senza Oriente, ma anche senza Occidente, come una specie di bussola, impazzita dinanzi alla geografia dei tumulti del mondo.

L’artista iraniana Shirin Neshat nei suo scatti fotografici denuncia la situazione delle donne in un Paese che nega i diritti irrinunciabili per qualsiasi essere umano. Ci dice il suo punto di vista sulla situazione delle donne in questi paesi?

Conosco Shirin Neshat, fece anni fa un commento sulla fotografia delle donne kamikaze per la Electa. La questione femminile è al centro della questione della modernità, ma c’è un gioco sottile e perverso sull’immagine della donna nell’Islam: portare il velo, il kalashnikov, guidare un autobus (come in Iran), ma il velo rimane permanente perché ha la funzione comunque di definire il rapporto fra il maschio dominante e la donna dominata, che lo vogliamo o meno.

La sua concezione d’arte contemporanea?

Sono arrivato tardivamente all’arte contemporanea e grazie ad un mio caro amico, Thierry Bouchard, grande tipografo d’arte francese, deceduto nel 2008. All’origine era un filosofo e poeta ma era appassionato dalla tipografia tradizionale, stampava con l piombo e i caratteri dei suoi libri, molto strani, li disegnava lui. Ma i suoi libri non erano libri, il testo dell’autore era come una scultura impressa sulla carta, molto raffinata, e sempre accompagnata da disegni o stampe fra i più celebri a livello contemporaneo, come il catalano Antonio Tapies oppure il cinese Zao Wouthi, o il russo-belga Alschenky, membro degli anni 50 del gruppo Cobra, sono pittori che ho conosciuto perché chi faceva un libro con Thierry passava intere giornate nella sua bella casa ritirata lungo il fiume della Saone Loire in Borgogna. Posso dire che ho imparato molto con questi artisti, guardare, ma con la capacità di andare oltre lo sguardo e penetrare ciò che è può apparire all’istante come impenetrabile. A Trieste ho conosciuto un giovane pittore, Nicolò Mazzuia, che è molto promettente che sembra fare corpo a corpo con i colori e con i misteri che si nascondono all’interno di ogni alfabeto.

Cosa considera tabù oggi?

Quando vedo ancora che uscendo dalla stazione di Trieste nel giardino quasi abbandonato che sta di fronte, un enorme statua di una principessa, c’è un nome Elisabetta, ma potrebbe essere 1,2,3,4 o 5, nata chissà quando, mentre tutti sanno che è la principessa Sissi, ecco questo è un tabù che la dice lunga sull’inconscio collettivo della nostra città. Immaginate un giapponese che non sa niente di storia locale, e che fa una foto di questa città, si mette davanti e appare un nome “Elisabetta”, il suo amico chiede “Ah Elisabetta! D’Inghilterra?”.

Credere in qualcuno?

Credere vuol dire mantenere la speranza con il mistero, credere sia nella vita che nei rapporti affettivi, sia nel profumo di una cosa, di un fiore che può trasportarci in un’altra dimensione, questo per me è credere.

 

 

 

 

 

Da: Il Ponte rosso n. 0, aprile 2015

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Autore: Serenella Dorigo