Solo per ringraziare

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La bella vita del critico d’arte (parte undicesima)

Incontri, arte e amicizia con Giancarlo Ermacora e Marcello Mascherini

di Giancarlo Pauletto

 

 

Se una persona ha una certa età – diciamo ottant’anni – allora è inevitabile che abbia visto cadere il fulmine, tra i suoi amici, anche perché essi stanno, per lo più, tra i dieci prima e i dieci dopo dei suoi anni, cioè tra i settanta e i novanta.

Così io ho visto andarsene, purtroppo, varie persone che stimavo e volentieri frequentavo, essendo la loro compagnia di quel genere, di cui si dice che non è necessario sia molto frequente perché, quando ci si rivede, è sempre come si fosse stati a cena assieme la sera prima.

Questo tipo di amico era per me Giancarlo Ermacora (1942-2003), lo scultore di Billerio che avevo conosciuto ancora attraverso la mediazione di Cragnolini, e di cui avevo recensito due mostre, una al Palazzo Orgnani-Martina a Venzone nel 1997, una a Palazzo Frangipane a Tarcento nel 2000.

Scrivevo, nella prima: «Viene dunque da questa mostra un’immagine di artista pacato e concentrato, che pesa le parole, riflette, cerca il risultato in forme non effimere, accoglie con maturità insegnamenti che danno robusta consistenza ad una dichiarata radice culturale».

Questa radice indagai più a fondo quando, nel 2005, gli amici dell’Associazione Storie dai Longobars organizzarono la sua antologica in memoriam, presso Villa Moretti di Tarcento, realizzando un ottimo catalogo che è oggi mallevadore della presenza di questo autore dentro l’arte friulana contemporanea.

Dino Basaldella e Ceschia, con i quali Ermacora aveva collaborato per anni, risultavano i suoi sicuri punti di riferimento, ma egli poi, in tutta una serie di ceramiche degli anni tra gli ultimi novanta e i primissimi duemila – le lacerazioni, le esplosioni, i cortili, le sfere tagliate – era giunto ad un territorio specifico, drammatico-lirico, nel quale la sua immaginazione, sempre legata anche alle emergenze del sociale, si esprimeva con identità precisa, con un equilibrio che, andando al di là delle sottigliezze plastiche e della buona educazione lessicale, serviva – serve – ad una comunicazione che l’artista sentiva come suo compito.

Andai a salutarlo, negli ultimi tempi della malattia, che lo aveva molto offeso nella memoria.

Fece un grande, aperto sorriso: «Ecco – mi disse – di te mi ricordo il nome, perché ti chiami  Giancarlo, come me».

 

Faceva un caldo feroce, quel 23 luglio 1988.

Alle diciotto si sarebbe inaugurata la grande retrospettiva di Marcello Mascherini presso Villa Manin di Passariano.

Alle diciassette e trentacinque io – direttore di quella mostra – finii di sistemare l’ultima didascalia.

Già parecchie persone erano giunte e altre stavano arrivando, come si poteva capire dalla tante automobili che continuavano a parcheggiare attorno al grande prato tra le barchesse.

Tutti venivano gentilmente deviati verso la sala dell’inaugurazione.

Io ero sudato fradicio, stazzonato come il cavallo di Tex Willer dopo una cavalcata di otto ore.

Ma avevo previsto tutto.

Mi fiondai alla macchina e mi diressi, alla velocità più decentemente alta che potevo tenere, verso una grande fontana che si trovava poco a sud di Codroipo, dalla larga bocca, dal getto potente, che aveva il grande vantaggio di essere vicinissima ad un folto campo di pannocchie – allora, adesso non più.

Parcheggiata la macchina, presa la borsa, mi infilai nel campo.

Mi spogliai fino a rimanere in mutande.

Misi la testa fuori, non si vedeva nessuno, il bestiale calore della giornata sconsigliava ogni movimento non indispensabile.

In cinque secondi fui sotto il getto d’acqua, in altri dieci ero fradicio dalla testa ai piedi.

Sempre senza nessuno in vista, mi ributtai tra le canne.

Mi strofinai in fretta con il previsto asciugamano, con un minimo di calma mi infilai il vestito da cerimonia, mi calzai, mi pettinai.

Alle sei e tre minuti ero al mio posto, all’estrema destra del grande tavolo dove si stavano accomodando le autorità che dovevano parlare all’inaugurazione.

Un vero exploit, ma allora ero un ragazzo.

 

Quando la Regione ci affidò l’incarico di organizzare la mostra di Mascherini, al Centro Iniziative Culturali Pordenone fummo molto contenti, per l’evidente riconoscimento, e per il prestigio che l’incarico stesso significava; ma anche ci preoccupammo, poiché ci rendevamo ben conto che non si trattava di bruscolini.

A parte il Comitato d’onore – che fu presieduto da Nilde Iotti, allora a capo della Camera dei Deputati – bisognava costituire Comitato Scientifico e Comitato esecutivo, sapendo inoltre che il tema dell’allestimento, il tema dei trasporti e quello della schedatura delle opere avrebbero avuto bisogno di molta attenzione.

Il Comitato scientifico fu composto da Mario De Micheli, Gillo Dorfles, Luciano Padovese coordinatore, Giancarlo Pauletto, Franco Solmi.

Il Comitato esecutivo da Stelio Crise, Isidoro Martin coordinatore, Nicolò Molea, Alfonso Mottola, Luciano Padovese, Giancarlo Pauletto, Carlo Ulcigrai, Maria Francesca Vassallo, Laura Zuzzi.

Ci fu da lavorare per tutti, e specialmente per chi si occupò di trasporto e di allestimento.

Come direttore della mostra seguivo ovviamente tutto quel che doveva essere fatto e, man mano che la data d’inaugurazione si avvicinava, l’ansia andava crescendo.

Eravamo in ritardo – o così mi pareva – sui trasporti, e questo ritardo comprometteva l’allestimento;

eravamo molto in ritardo – o così mi pareva – sulla costruzione del catalogo, che comportava tra le altre cose centoquarantuno voci di schedatura opere, da fare di sana pianta con l’elenco, il più completo possibile, delle esposizioni, cosa che toccava a me.

Non avevamo ancora risolto il problema dei molti supporti per le molte sculture, ma qui intervenne l’idea felice di Isidoro Martin, l’architetto della mostra, il quale pensò di costruirli con dei grandi mattoni perfettamente squadrati, color rosso-mattone appunto: ciò permetteva di regolarne a volontà base e altezza, a seconda della dimensione delle sculture, e fu veramente un’idea vincente oltre che sul piano dell’eleganza, anche su quello dei soldi da spendere.

Le grandi sale di Villa Manin furono velate in modo che le emergenze architettoniche degli spazi settecenteschi non disturbassero la visione della mostra, ma neppure scomparissero alla vista: ne venne un’ambientazione molto suggestiva, a parere non solo mio.

Per i trasporti e anche per l’allestimento ci venne in aiuto un amico intenditore e critico d’arte, che si occupò dei viaggi più rognosi dentro la città di Trieste, mentre io mi affannavo sulle schede.

Alla fine, insomma, tutti i tasselli andarono a posto, compreso il catalogo, che ebbe quattro importanti testi di Mario De Micheli, Gillo Dorfles, Franco Solmi, Adriano Dugulin, e le fotografie, molto belle, di Alfonso Mottola.

Restava l’allestimento, che procedeva troppo a rilento.

Mario De Micheli si posizionava, seduto come un Budda, sulla soglia della sala da allestire: era molto sapiente, ma anziano, e pesante di corporatura; da lì cominciava a dare le sue istruzioni di allestimento, che un gruppo di cinque-sei persone si affrettava ad eseguire.

Andava tutto bene, dal punto di vista della logica e dell’eleganza, ma il gruppo degli esecutori concordava sul fatto che, di quel passo, il giorno dell’inaugurazione mezza mostra sarebbe stata ancora da montare.

Si addivenne perciò ad un compromesso: due di noi sarebbero andati avanti a costruire piedistalli nelle sale successive, con l’accordo che, se necessario, si sarebbero poi decostruiti e spostati.

In realtà, non essendo le due persone prive di discernimento allestitorio, accadde che il buon Mario non cambiò più niente, essendosi evidentemente convinto che andava bene così, e avendo in qualche modo avuto l’onore delle armi.

L’estrema difficoltà fu quando, nell’ultima sala, dovemmo montare il grande Minotauro, un bronzo di quasi tre metri di altezza, pesantissimo: rischiò di crollarci addosso, e sarebbe stata una bella frittata.

Ma la mostra era stupenda.

Dalla meravigliosa, clamante Estate del 1934, alla bellissima Eva del ’39, alla nobilissima  Testa di Virgilio Giotti del ’40, a quella spirituale e quasi egizia di Silvio Benco del ’52, in cui si poteva leggere la stilizzazione classicista già impostata dallo scultore nel ’50, e che avrà al suo culmine in lavori quali La primavera, il San Francesco, il Fauno disteso; per avanzare negli anni sessanta in cui la materia si frastaglia e diventa espressionista, fino a quegli estremi capi d’opera che sono, nei primi anni settanta, le sculture vegetali, il Fiore del ricordo, il Fiore rosso, la Foglia, il Coro: tutto Mascherini rimandava alla grande stagione della scultura italiana novecentesca, quella che, con Martini, Manzù, Marini e altri importanti artisti, poneva coscienti radici nell’antica tradizione classica e mediterranea.

Fu un grande successo, si staccarono circa ventimila biglietti.

 

Marcello Mascherini

Danzatrice

1955