Elogio della memoria e della lentezza

Incontro con Fabrizio Gifuni

di Stefano Crisafulli

 

«Niente di ciò che ci circonda si capisce tagliando i fili con il passato: non penso sia possibile essere cittadini del presente e vivere in uno stato di perenne amnesia». Ne è certo l’attore Fabrizio Gifuni, che spesso si è confrontato, a teatro e al cinema, con personaggi di rilievo della storia italiana recente e meno recente: basti pensare a Franco Basaglia, da lui interpretato nella miniserie C’era una volta la città dei matti diretta da Marco Turco, o a Pier Paolo Pasolini, proposto a più riprese, partendo dallo spettacolo teatrale Na specie de cadavere lunghissimo di Giuseppe Bertolucci nel 2006, sino a Il male dei ricci. Ragazzi di vita e altre visioni nel 2022, o all’inquisitore Pier Feletti nell’ultimo film di Bellocchio, Rapito. Ma è soprattutto la figura di Aldo Moro che emerge da una serie di progetti teatrali e cinematografici di ampio respiro e che sembra essere lo snodo della storia italiana che Fabrizio Gifuni ha fortemente voluto esplorare in diversi momenti della sua carriera: lo testimoniano ben due film, Romanzo di una strage (2012) di Marco Tullio Giordana, anche se Moro compare solo parzialmente, perché si tratta del racconto della strage di Piazza Fontana, ed Esterno notte di Marco Bellocchio, del 2022, nel quale Gifuni mostra un’impressionante capacità identificativa con il leader della Dc ucciso dalle Brigate Rosse nel 1978. A ciò si aggiunga lo spettacolo teatrale Con il vostro irridente silenzio, del 2018, basato sulle lettere e il memoriale di Aldo Moro.

Per tutto questo e non solo, lo ShorTS International Film Festival ha giustamente consegnato a Fabrizio Gifuni, nell’ambito di una masterclass aperta al pubblico che l’attore ha tenuto sabato 8 luglio al Teatro Miela, il Premio Interprete del Presente. In quello stesso giorno, nel pomeriggio, il sottoscritto ha preso parte ad una conferenza stampa con Gifuni che si è trasformata, poi, in una bella e ampia chiacchierata con i giornalisti presenti.

 

Com’è riuscito a compiere un’identificazione con Aldo Moro così precisa, soprattutto in Esterno notte di Bellocchio?

Il risultato di quel lavoro è dato da questo lungo percorso che ho avuto la possibilità di prendere nel corso degli anni, un percorso buono e molto soddisfacente per il pubblico e anche per me, nonostante io sia sempre molto severo con me stesso. Era un Moro più giovane una decina di anni fa, in Romanzo di una strage di Giordana, film su Piazza Fontana che ha fatto emergere una pagina nascosta sul suo ruolo, su quale posizione prese e su quanto sapesse della vicenda. Poi ci sono stati lo spettacolo teatrale sulle lettere e il memoriale e l’incontro con Bellocchio per Esterno notte. Mi sono occupato di Aldo Moro per così tanto tempo mosso da una passione personale per la storia e a causa di una sistematica distruzione della memoria storica negli ultimi trent’anni. In particolare ho pensato che il teatro potesse essere un luogo per riattivare attraverso la memoria di corpi la memoria di un paese, per mezzo di un cortocircuito emotivo che ci potesse raccontare ciò che eravamo e ciò che siamo diventati, o quello che in fondo siamo sempre stati. Ma poi, nell’interpretazione del ruolo, ci sono anche il gioco, l’immaginazione e la fantasia, che sono il motore del mio lavoro.

Molto importante, dal punto di vista della memoria, è stata la miniserie su Basaglia, che lei ha interpretato…

Sono stato felicissimo che Marco Turco, un regista molto bravo, mi abbia proposto questo ruolo. Già nel film di Giordana La meglio gioventù Lo Cascio era Nicola, mio amico e giovane psichiatra, e attraverso di lui si raccontava la rivoluzione basagliana. Per C’era una volta la città dei matti (2010) sono stato tanto tempo a Trieste e Gorizia ed è stato importante conoscere in prima persona queste realtà e incontrare persone che avevano attraversato momenti di disagio psichico. E anche in questo caso se non ci ricordiamo che cosa è stata quella storia, non avremo la misura della regressione di oggi sul piano della sanità pubblica e dell’accoglienza.

Dopo aver ricevuto, quest’anno, il David di Donatello per la sua interpretazione di Aldo Moro in Esterno notte ha ringraziato, tra gli altri, proprio Marco Bellocchio, ma anche la lentezza…

Sì, perché Bellocchio, con il quale ho avuto il privilegio di condividere il processo creativo, è un regista di grande originalità, attento alla complessità dell’animo umano e nemico della semplificazione. Mentre la lentezza è qualcosa di estremamente necessario in questo momento, al fine di riportare la vita e il lavoro a ritmi più umani. Perché siamo ormai entrati da molti anni in una accelerazione che stordisce l’essere umano e la natura. Bisogna, invece, lavorare prendendosi il tempo necessario, soprattutto per chi si occupa dell’aspetto creativo e artistico: i grandi film del cinema italiano nascevano in questo modo, mentre adesso i progetti cinematografici sono molto veloci perché devono obbedire a determinati standard produttivi. Ma lavorare a ritmi disumani, nel nostro campo, semplicemente non funziona: quando i bambini giocano si prendono il tempo e lo spazio per poter costruire mondi’

Come si può fermare questa corsa incessante e inumana?

Non so cosa succederà, ma c’è bisogno di fare un po’ di sana resistenza e di chiamarsi fuori, quando è il momento, per evitare di girare perennemente sulla ruota. Che si parli di arte o di politica, si ha a che fare comunque con la cura dell’essere umano, dei rapporti interpersonali e della natura. La scuola, ad esempio, potrebbe svolgere un ruolo importante, ma deve essere svincolata dalle regole della competizione e del profitto. Bisogna resistere: se qualcuno ci propone qualcosa di sbagliato, credo si debba avere il coraggio di proporre un’altra visione’

Con i suoi lavori su Pasolini e su Moro lei ha esplorato la questione della verità. Perché la verità fa così paura?

Se il riferimento è agli scritti di Moro, più che la verità, ciò che mi ha spinto a metterli in scena è un’amnesia cosciente o non cosciente del memoriale e delle sue lettere. Dal momento in cui sono state rese pubbliche, dopo che erano state tenute nascoste per molto tempo, nessuno ha più avuto voglia di leggerle. Che cosa ci è successo? Chi ha avuto interesse affinché non ci si occupasse più di questa documentazione? Il pubblico che viene a vedere lo spettacolo non è solo un gruppo di spettatori, ma anche di rappresentanti della comunità e, dunque, come accadeva nel teatro greco, deve chiedersi: che cosa ha a che fare con me questo materiale?

 

 

Fabrizio Gifuni

Trieste, Teatro Miela

8 luglio 2023

foto di Nicoletta Timeo