Il socialismo della speranza

| | |

In un libro curato da Leoncini riflessioni e immagini della Primavera di Praga e del suo leader

di Walter Chiereghin

 

Francesco Leoncini, docente di Storia dell’Europa Orientale, Storia dei Paesi Slavi e Storia dell’Europa Centrale a Ca’ Foscari, ci offre in un volume denso di immagini una sintetica ma efficace ricostruzione di quel breve lasso di tempo che, cinquant’anni or sono, percorse con un fremito di speranza la Cecoslovacchia, destinato tuttavia a un repentino drammatico epilogo, nella dura disillusione consumatasi in quell’estate del fatidico Sessantotto. Dubček Il socialismo della speranza è il titolo del volume, corredato di numerose immagini della Primavera cecoslovacca e recante, tra gli altri, anche un testo di Gűnter Grass.

Il personaggio chiave di quegli eventi, come segnala il titolo, è naturalmente Alexander Dubček, che fin dalla sua ascesa al potere, concretasi con l’elezione a segretario del partito comunista cecoslovacco al posto di Antonìn Novotný il 5 gennaio 1968, conscio di doversi scontrare con un sistema autoritario e sclerotizzato, si era speso per «ridare il volto della libertà e della democrazia a un socialismo che era stato oscurato da decenni di cupa dittatura, improntata a una logica militare e poliziesca, per inserirlo nella sua migliore tradizione, essere cioè la naturale continuazione del movimento di liberazione dell’uomo» (p. 9). La “migliore tradizione” non può essere, soprattutto per un leader cecoslovacco, che quella incarnata da Tomáš Masaryk, il padre della patria, ma anche da Carlo Rosselli o dal liberale William Beveridge, autore nel Regno Unito di un famoso “Piano di protezione sociale” del 1942. Come dichiarerà molti anni dopo lo stesso Dubček, nel periodo che segnò il suo avvicinamento al potere, apprezzava molto esponenti di primo piano della socialdemocrazia dell’Europa occidentale, citando in particolare Olof Palme e Willy Brandt, dirigenti politici come lui in rapida ascesa in quel periodo. Riferimenti politici e culturali di questa fatta inducono a considerare come imprescindibili le istanze relative ai dritti civili, ma anche inscindibili da quelle informate dall’esigenza di garantire, contemporaneamente, i diritti sociali.

Come osserva Leoncini, nel ’68 di Praga «vi era la consapevolezza che si stava costruendo qualcosa di “altro” e ci si proponeva di affrontare in modo inedito non solo la crisi del Paese ma quella più in generale della società contemporanea» (p. 12).

Può sorprendere che a dar corpo a istanze così fondamentali ed eterodosse rispetto alla dottrina moscovita fosse un giovane dirigente politico slovacco, che appare sorridente e disteso in tutte le immagini che abbiamo di lui in quegli anni, anche se il suo percorso di formazione era quanto di più tipico venisse assicurato a un dirigente comunista.

Figlio di un operaio socialista, emigrato negli Stati Uniti e rientrato in patria nel 1921, pochi mesi prima della nascita di Alexander, si trasferì in Unione Sovietica quando il bambino aveva quattro anni, e vi rimase fino al 1939. Dubček durante la guerra lavorò come operaio, aderendo quindi al Partito comunista clandestino e partecipando attivamente alla lotta di liberazione dal nazifascismo. A guerra finita, iniziò a lavorare in una fabbrica di lievito dove gli si prospettava anche una carriera che lo avrebbe portato alla direzione dello stabilimento, ma nel giugno del ’49, in accordo con la moglie Anna, decise di dedicarsi del tutto alla politica e iniziò una carriera accelerata ma tipica dei dirigenti politici comunisti. Divenuto segretario regionale del partito, fu mandato a frequentare presso il comitato centrale del PCUS la scuola superiore di politica. Nel ’63 assunse l’incarico di segretario del Partito slovacco, iniziando così la lunga marcia che lo avrebbe portato alla massima carica nazionale cinque anni più tardi. Lo scontro finale di quella lotta politica lo vedeva opposto a un potere consolidato da decenni e incarnato nella figura del segretario generale Antonìn Novotný, ex deportato a Mauthausen, che aveva assunto la carica nel 1953, aggiungendovi quella di presidente della Repubblica dal ’57: un uomo che personificava l’epoca del potere staliniano.

Gli anni nei quali fu alla guida del partito slovacco a Bratislava furono fondamentali nella sua biografia politica e propedeutici all’ascesa al vertice del partito cecoslovacco. «Dal punto di vista economico la Slovacchia, nonostante gli ingenti investimenti compiuti dal governo comunista, era rimasta in un rapporto di carattere semicoloniale rispetto al centro praghese » (p. 16). Dalla capitale slovacca, circondandosi di un gruppo di intellettuali convinti come lui della necessità di riformare anche in senso democratico lo stato e attento a mantenere ed accrescere un rapporto diretto con la gente. I collaboratori e l’apprezzamento della gente comune furono i due punti di forza per la sua ascesa, e del resto gli assicurarono un larghissimo appoggio popolare, come poi si vide anche nelle fasi più drammatiche dell’invasione delle truppe del Patto di Varsavia. Anche per queste ragioni si può affermare con Leoncini che il fenomeno della Primavera di Praga affonda le sue radici negli anni di Bratislava.

Lo straordinario successo popolare del leader dopo l’ascesa alla segreteria nazionale si può misurare dalla massiccia e festosa adesione popolare alle manifestazioni del Primo maggio ’68, e in ciò alcune belle immagini del volume rendono puntuale testimonianza, come pure quelle del rapporto tra il leader e la sua gente. A queste, drammaticamente, si oppongono quelle di quell’agosto acuminato, che vide un’adesione altrettanto massiccia di popolo per le vie di Praga, a confronto serrato con i ragazzi sovietici delle truppe corazzate che erano stati mandati là per reprimere un regime descritto loro come impopolare e che si trovavano sbigottiti a fare i conti con una folla che li implorava di tornare a casa loro.

Questa tuttavia è la storia più nota, quella che anche in Occidente fu vissuta in presa diretta, da un’opinione pubblica, anche di sinistra, distratta e disattenta. Come osserva Gűnter Grass in un testo di poco successivo all’invasione della Cecoslovacchia riportato nel volume, in Occidente gli esempi da seguire non erano quelli degli intellettuali cechi e slovacchi che avevano promosso la Primavera fin dai tempi ostili di Novotný: «per gli studenti di Berlino e Parigi […] la scelta fu di carattere fotogenico: il professionista argentino della rivoluzione Che Guevara fu gonfiato a dimensioni divistiche. In altre parole, mentre i riformatori cecoslovacchi tentavano di compiere le loro riforme […] fronteggiando una grossa opposizione (poi rivelatasi insormontabile) l’estrema sinistra occidentale, nota anche come Nuova Sinistra, si crogiolava nel suo romantico atteggiamento rivoluzionario» (p. 73). Così riassume il senso ultimo di quella sconfitta Grass (che sarebbe stato insignito del Nobel nel 1999), immerso nel clima di una Guerra fredda che ancora drammaticamente perdurava: «Due tronfie superpotenze mondiali hanno convertito la stupidità in schieramenti militari e testate atomiche. Noi ci stiamo in mezzo, continuamente minacciati di ricevere da una parte o dall’altra una manata bonacciona. Così alla fine abbiamo capito la lezione di Praga» (p. 76).

Se ci fosse oggi un’Unione europea forte e coesa la situazione internazionale potrebbe essere diversa dalla debolezza, dalle divisioni e dalla precarietà di allora, anche in un quadro più complesso e problematico di allora. Ma questa è un’altra storia…