La cenere è ancora calda

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Incontro, all’inizio degli anni Novanta, con Ligio Zanini

di Ivan Crico

 

La notte si addensa attorno a me

selvaggio e gelido soffia il vento

ma una magia implacabile mi ha vinto

e non posso non posso fuggire…

 

Emily Bronte

 

Era un giorno immerso nel riverbero luminoso del mare tra le case, il verde chiaro, sbiancato dal sole delle foglie d’acacia. Giunsi a Grado dopo diversi passaggi, divisi da lunghe attese, in macchina. Non avevo ancora, in quel tempo, la patente. Respiravo come un’improvvisa liberazione quell’aria mattutina leggera, intrisa di sale, venuta a contrastare l’afa dei giorni precedenti. Camminando come sognato da quella luce calma. Nel tintinnio delle corde sulle alberature si fondeva il brusìo indistinto dei turisti per le vie, nei negozi e nelle edicole, traboccanti fino quasi all’orlo della strada, avvolte in un pulviscolo patinato di volti sorridenti, corpi nudi, caratteri diversi, minuti, cubitali, dai colori accesi.

Sotto il porticato dell’Auditorium, nella penombra ventilata, trovai il poeta di Rovigno – un meraviglioso paese sul mare in Istria – Ligio Zanini. Parlava con l’amico Amedeo Giacomini che fumava, attento sempre e inquieto, una sigaretta dopo l’altra. Zanini era lì per ritirare un premio importante, il primo dedicato alla memoria di Biagio Marin. Non so se è la memoria a tradirmi – non lo rividi più dopo quell’occasione – ma mi apparve come un uomo imponente; forse sbaglio, o forse era la sua forza interiore, di uomo sopravvissuto a prove terribili, che rendeva la sua figura così presente. Dagli altri si distingueva, inoltre, per il suo abbigliamento disadorno, da pescatore qual era, con dei pantaloni di vecchio taglio, la camicia a quadretti, il basco scuro. Teneva in mano alcune lettere che Marin gli aveva scritto. Disse che le aveva portate per metterle in salvo. Aveva paura di quello che sarebbe potuto succedere, da lì a poco, in Jugoslavia. E nei suoi occhi, nella voce di perseguitato si condensava, di colpo, come uno spavento indicibile che, lo si sentiva, lui aveva già vissuto altre, troppe volte.

 

A ma s’inpéira ’l pilvintréin, fradài,

nam’ al panser ca ma turno a granpà

i cani da pastur, quii del russo,

ch’i uò i denti stuorti, sensa pardon.

 

I son sta tri ani zuta quile bies-ce,

puoi par sempre tinbrà cume pegura nigara…

 

 

Mi si solleva il pelo d’oca, fratelli,

soltanto al pensiero che mi afferrino nuovamente,

i cani da pastore, quelli del rosso,

con i denti ricurvi, senza perdono.

 

Sono stato per tre anni sotto quelle bestie,

poi per sempre marchiato quale pecora nera…

 

 

La guerra non era ancora iniziata e molti di coloro che erano presenti (per poca conoscenza, per cecità o anche, non bisogna negarlo, per quel disinteresse colpevole che nasce dalla sazietà nei confronti dell’esterno) non avrebbero mai pensato che questo evento potesse svilupparsi, a pochi passi da noi, in quella che sembrava ormai destinata a far parte, pacificamente, dell’Europa moderna.

«L’Italia» d’altra parte, diceva già Noventa in occasione dell’esodo degli istriani, ora come allora troppo presa da se stessa, non ha occhi per vedere ciò che le succede intorno, «la xe tanto distrata».

Conoscevo bene, come molti di coloro che abitano lungo questi confini, l’atmosfera di tensione quasi insostenibile che si respirava ogni qual volta si oltrepassava la frontiera. Dopo la morte di Tito, al di là di cambiamenti superficiali, più apparenti forse che reali, i conflitti interni non si erano esauriti. Anzi. Con la sua scomparsa, tutto ciò che era stato per tanto tempo soffocato, respinto nel fondo, ora lentamente ma inesorabilmente cercava di ritornare in superficie. Ma questa crosta indurita di cenere, con cui dal dopoguerra ad oggi si era tentato, anche con la più spietata repressione, di seppellire le conflittualità, non poteva – per troppa pressione interna – che esplodere da un momento all’altro con una violenza tremenda, imprevedibile. Ma soltanto adesso tutto appare chiaro nella sua tragica evidenza.

Allora, a un anno di distanza dall’inizio dalla guerra, i presentimenti di Zanini non furono, se non in parte, compresi. Sembrava, la sua, una previsione troppo catastrofica per sembrare realistica. Abituati alle nostre continue mediazioni, accomodamenti, si dimenticavano in questo modo due qualità – che possono anche trasformarsi in difetti terribili – dei popoli slavi: la memoria e la determinazione nel portare a termine, fino in fondo, i propri propositi. Due qualità che però, alimentate dall’odio che naturalmente si genera all’interno di un conflitto, possono sfociare in una inumana freddezza nello scovare, anche dal fondo del tempo, raggiungere e colpire chi non sta dalla propria parte. Come è accaduto e, al di là dell’indifferenza generale, può ancora e in parte ancora continua ad accadere anche se in forme più nascoste, meno luttuosamente spettacolari.

Zanini parlò, poi, di sé, di come Tito l’avesse mandato in uno dei Lager approntati per gli oppositori, quelli che venivano chiamati “campi di rieducazione ideologica”, dove i prigionieri erano costretti a dormire a terra sul fianco, perché non c’era posto, e, se uno si sentiva male e doveva girarsi, bisognava che cominciasse dal fondo, dal primo contro il muro, a voltarsi tutta la fila. Parlò di come sua moglie, a diciott’anni, fu costretta per mantenere la famiglia ad andare a raschiare, in porto, la ruggine dalle navi. Non c’era altro lavoro disponibile, allora, per la compagna di un dissidente.

 

Il mare e la città di Rovigno, la pesca, l’amicizia con il gabbiano Fileipo, continuamente cantati nella sua poesia, divennero in un certo senso i simboli salvifici capaci di guidarlo, dall’inferno della storia, la solitudine, verso la libertà fisica ed interiore.

 

A ma par,

ca cusséi pansando i nu son sul;

i siè da iessi cui tanti marinieri,

véia dai lòuridi ponti alti da cumando,

sul silistréin sensa cunféini

del mar quito e lanbàstro,

ula ognidòun el sa signasse,

cun cuntantissa, la pruopria ruota,

pel puorto d’òun véivi da omi.

 

 

Mi sembra,

così pensando, di non essere solo;

sono con i molti naviganti,

via dagli sporchi ponti alti di comando,

sul cilestrino senza confini

del mare calmo e trasprente,

dove ognuno sa tracciarsi

con gioia la propria rotta,

per il porto dell’umana convivenza.

 

 

In questi luoghi e tra queste presenze, segni della vita colta nel suo aspetto più essenziale, trovò un rifugio dalla ferocia del presente, uno spazio in cui ritirarsi/avventurarsi per re-iniziare a ricomporre la frattura tra uomo e natura, oltre i drammi della storia, a partire da se stesso. Uomo combattivo, tormentato e brusco, talvolta, nei suoi attacchi ogni qualvolta sentiva minacciata la dignità umana, in questo passo sembrano affiorare ancora, svuotate da ogni retorica, le parole di Michelstaedter in una delle sue ultime poesie:

 

Perciò se freddo e ruvido io ti sembri,

ma tu lo sai: è per vieppiù andare,

è per nutrir più vivida la fiamma,

perché un giorno risplenda nella notte,

perché possiamo un giorno fiammeggiar

liberi e uniti al porto della pace.

 

La poesia di Zanini non poteva che ripartire da qui, opponendo ai deserti delle grandi ideologie (all’ordinamento della realtà secondo principi superiori che non contemplano le esigenze del singolo),  attraverso l’affermazione della sua diversità, del suo voler resistere, con il proprio esempio, ribadendo la sua sempre rivendicata autonomia di giudizio, a questa cieca omologazione.

Di fronte alla generalizzazione imperante, Zanini rispose portando in primo piano, come oggetto della sua poesia più alta, realtà minuscole, nomi di persone e ambienti, utilizzando, per descrivere particolarissimi fenomeni del mondo marino, termini usati dai pescatori talmente radicati nella realtà del luogo da non aver nemmeno un corrispettivo italiano. Ambientalista anzi tempo, comprendeva che senza conoscere a fondo la realtà che ci circonda – portandoci al di fuori di noi stessi, dei nostri problemi per capirla, per diventare alberi, pesci, pietre, dialogare come Zanini faceva con il suo gabbiano – non potremo mai avere il vero senso del valore della vita intorno e dentro di noi, saremo sempre soggetti al rischio di distruggerla, sprecarla.

Sentiremo, solo allora, ogni offesa nei suoi confronti come se venisse inflitta a noi stessi. Rifacendosi ad una frase del grande scrittore inglese, nel suo libro di saggi, Il Tempo, grande scultore,  Marguerite Yourcenar diceva: «Scrive Oscar Wilde che il peggior crimine è la mancanza di immaginazione: l’essere umano non prova compassione per i mali di cui non ha esperienza diretta o a cui non ha personalmente assisito».

 

La distanza dalla realtà, la riduzione della cosa a numero, merce, come i muri spessi che celano allo sguardo del consumatore ciò che avviene nei mattatoi, è il primo passo verso una visione disumanizzata: diventa più facile, se non si sa chi è, da dove viene, puntare il fucile contro un nemico; e difatti, nelle guerre, la prima cosa, la più urgente è quella di eliminare ogni vicinanza tra noi e gli altri. La poesia di Zanini brucia, invece, ogni residuo di divisione con la realtà. Il particolare, l’attenzione nei confronti del particolare diventa una chiave per accedere al tutto, per liberarsi, attraverso l’immedesimazione con ciò che ci attornia, da noi stessi, dalla cupidigia, da un’indifferenza complice che lascia libero il campo al dilatarsi senza fine dei massacri.

 

…parchi de Pasturi

a uò granpà la riguola,

pratandando da savì dòuto

e sòurme inbriaghe e rufiane

li ga bato ancura li man…

 

…poiché pastori

hanno impugnato la sbarra

pretendendo d’essere infallibili

e ciurme ubriache e ruffiane

ancora li applaudono

 

Quando trovai tra una catasta informe di volumi, nella soffitta di un mio amico, il suo primo libro Buleistro, mi colpì subito, senza conoscerne l’autore, questo sentimento della poesia come forma di resistenza, come un argine che si leva di fronte all’onda corrosiva di un’ingordigia senza misura, in cui si perde ogni attenzione nei confronti dell’altro, che rischia di travolgere ogni realtà presente e passata. è una voce che immediatamente si distacca da gran parte della poesia in dialetto; una voce che non ha bisogno di riferirsi ad esempi letterari per invalidarsi come, del resto, di sfuggire nella facile nostalgia, statica, regressiva, tipica di tanta poesia vernacolare, nei confronti dei tempi passati. Tempi che, per Zanini, non sono perduti finché si continuerà a ripensarli, a coltivarne il ricordo.

“Buleistro” significa cenere calda: la cenere ancora calda sul focolare dei nostri avi, che unisce nel suo tepore non ancora spento il passato, attraverso le loro parole, il loro “favalà”, al presente.

 

La sienara xi ancura calda

sul grando fugulier

dela viecia casa in Uratuorio;

sienera ancura calda

par tanto fogo stissà

da ma nuona Fiamita;

fogo da sarmente, ramasse,

suchi da véide e da ulèii

strassinadi da Palù

sul bastéin del samarol;

fogo da bon udur,

ca ma uò fato nassi,

ca ma uò fato crissi,

da tanto tenpo dastoudà,

dastoudà

cun ma nuona Fiamita.

Gira rastade bronse e stéissi,

ma ogni giuorno da st’invierno

la canpana da Sant’Ufiemia,

cun l’umaréie da muorto,

cumpagna sensa gluorie

ogni bronsa ca sa dastòuda.

Duopo tanti buoti, uncui

el fugulier xi ancura caldo,

par un fià da buléistro

par pudì favalà ancura;

ancura, ultra l’ultimo buoto.

 

 

 

La cenere è ancora calda

sul grande focolare

della vecchia casa  all’Oratorio,

cenere ancora calda

per tanto fuoco attizzato

da mia nonna Eufemia;

fuoco di sarmenti, sterpi,

ceppi di viti e di olivi

trascinati da Palù

sul basto del somarello;

fuoco di buon odore,

che mi ha fatto nascere,

che mi ha fatto crescere,

da tanto tempo spento;

spento con mia nonna Eufemia.

Erano rimaste braci e tizzoni,

ma ogni giorno di questo inverno

la campana di Sant’Eufemia,

con l’avemarie di morte,

accompagna senza “glorie”

ogni brace che si spegne.

Dopo tanti rintocchi, oggi

il focolare è ancora caldo,

per poca cinigia,

per poter favalà ancora;

ancora, oltre l’ultimo rintocco.

 

 

Custodire dentro di sé la memoria del passato è legarsi a tutte le vite che ci hanno preceduto, ai tanti volti che dal silenzio di generazioni finiscono per comporre il nostro, guado oscuro tra ciò che è stato e ciò che verrà. Significa garantire, se non la continuità della nostra vita, quello che anche ognuno di noi potrebbe richiedere, a chi lo seguirà, di rivificare: le nostre esperienze, quello che, vivendo, abbiamo capito e sopratutto quello che non siamo riusciti a comprendere, perché da quel punto dovrà ripartire l’interrogazione, la domanda. Il confronto con il mistero. Ma se questo legame si spezza si spezza, anche, la complessità, la varietà di sguardi che questa eredità ci offre; e la vita, impoverita, sarà di nuovo al punto di partenza, per ripartire da capo preda delle semplificazioni, dell’arroganza dei giudizi affrettati. L’arroganza e la barbarie, contro cui questo poeta lottava, di ogni pensiero che vorrebbe plasmare il mondo a sua immagine e somiglianza.

Al tempo stesso, nel tentativo di abbracciare questa complessità, il pensiero è destinato allo scacco, ovviamente, a riconoscere la sua limitatezza; a comprendere la sua impossibilità (ridimensionando l’immagine superiore che ha di sé rispetto alle altre creature) a costringere il reale nello spazio angusto del proprio giudizio.

Ma è proprio in questo momento, sembra dirci questa poesia, che l’uomo può recuperare il proprio rapporto con la vita nella posizione di colui che serve il mondo, non se ne serve,  aiutandolo con la propria opera, cosciente dei suoi limiti, a sottrarsi “al fuoco, come dicono i sutra buddhisti, dell’ignoranza, al fuoco della cupidigia, al fuoco dell’aggressività” che lo divora da millenni.

 

Ultra ’l mul

uò butà

el garbéin

onde e pere,

spacando

séime, lansane,

e arméisi.

 

 

 

Ma duopo

tante scuribande,

sui nostri arméisi

xi ancura

viece batane ruvéignise.

 

 

Oltre il molo

il libeccio

ha scagliato

onde e pietre

spezzando

canapi

ed ormeggi.

 

(…)

 

Ma dopo

tante scorribande,

sui nostri ormeggi

sono ancora

vecchie battane rovignesi.

 

 

 

 

Eligio Zanini

1 agosto 1970

foto VG-RET