Sul romanzo storico secondo Scurati

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Qualche breve riflessione sui caratteri di una narrativa “neo-storica” che affronta la contemporaneità misurandosi con temi particolarmente spinosi.

di Fulvio Senardi

 

Mentre si impennano le vendite del Mussolini, atto II, di Antonio Scurati M L’uomo della provvidenza, (tra gli inchini e gli applausi delle claques nelle pagine di “cultura” dei giornali (che ormai conoscono un solo gesto: la benedizione, e che osannano in branco, plebiscitariamente), non è forse ozioso proporre qualche breve riflessione sui caratteri di una narrativa “neo-storica” che affronta la contemporaneità misurandosi con temi particolarmente spinosi e sui quali l’opinione pubblica è ancora, o di nuovo, profondamente divisa. Bisognerà cominciare, per chiarire subito il mio punto di vista, con una professione di fede tradotta in un affondo polemico. La contestazione ha come obiettivo il giudizio di Fredric Jameson che garantisce un importante avallo di legittimità alle operazioni narrative di cui si è detto: «il romanzo», afferma (e lo faccio parlare per interposta persona, avvalendomi della bella sintesi di Hanna Serkowska, Dopo il romanzo storico – La storia nella letteratura italiana del ‘900, 2012, p. 49), pur essendo un mezzo fallace e auto-referenziale, è la sola sede della ricostruzione del passato». Concetto che sembra echeggiare il profetico Nietzsche del Crepuscolo degli idoli: «come il mondo vero finì per diventare favola». Siamo, come si capisce, in un clima grossomodo “postmoderno”: scetticismo verso la Storia e feticismo verso le “storie”. Quella sensibilità che faceva scrivere a Baricco, uno dei suoi interpreti nazionali: «raccontare non è un vezzo da dandy colti, è una necessità civile che salva il reale da una anestetizzata equivalenza. Il racconto, e non l’informazione, ti rende padrone della tua storia».

Scurati, e arriviamo al nocciolo, condivide solo in parte queste posizioni, tanto è vero che il suo, per ora, dittico mussoliniano è costellato di rimandi storici e puntelli documentali, quasi a garantirsi contro accuse di lesa maestà nei confronti di Clio (senza perciò evitare le critiche degli addetti ai lavori: si rilegga a proposito il famoso elenco di strafalcioni stilato da Galli Della Loggia in un intervento sul “Corriere della Sera” nell’autunno 2018). Resta il fatto che lo scrittore, pur ammettendo le sviste («l’imperfezione è inevitabile, soprattutto in un libro di 850 pagine che abbraccia un’intera epoca. Io ho studiato per anni per fornire al romanzo una solida base documentale [tuttavia] non ho mai sostenuto di essere infallibile») ha rivendicato il diritto di narrare la storia secondo “l’arte del racconto romanzesco”. Che, da lui interpretata, riesce a offrirci delle sintesi di grande qualità concettuale; sul corpo del duce, per esempio (un tema che affatica gli storici – la della “corporalità” delle figure del potere come vivente feticcio di sacralità – almeno dal Marc Bloch dei Re taumaturghi): a Mussolini, scrive (nel primo volume sul dittatore), «piace offrire il suo corpo alle turiste straniere: il suo torace, le sue cosce nude, i suoi muscoli dorsali dovranno rimanere nella bruciante zona di contatto con la folla». È detto bene, e in maniera aggiornata alla nuova realtà di una moderna società di massa. Peraltro, nessuno nega la capacità della letteratura di allargare, per esperienza delegata, gli orizzonti della vita, mettendo in atto quelle potenzialità conoscitive che sono state riconosciute alla scrittura di invenzione fin dal romanticismo. Se serve qualche testimone, rimandiamo a Paul Ricouer (Tempo e racconto III), per il quale «la pratica del racconto consiste in una esperienza del pensiero mediante la quale noi ci esercitiamo ad abitare mondi a noi stranieri», o a Martha Nussbaum (1947), al crocevia di filosofia, psicologia, pensiero femminista, che in Poetic Justice (1995, dieci anni esatti dopo Tempo e racconto, con traduzione italiana nel 1996 dal titolo Il giudizio del poeta), rivendica alla letteratura una forma di conoscenza immedesimativa, fondata sulle emozioni empatiche di un fruitore che partecipa ai sentimenti e ai pensieri dei personaggi narrati, con il risultato di una maggiore disponibilità nei confronti della complessità del mondo; un processo che potrebbe contribuire a renderci più resistenti agli stereotipi e più sensibili ai valori democratici, come dichiara esplicitamente la Nussbaum fin dal sottotitolo scelto per l’edizione italiana: “immaginazione letteraria e vita civile”. Però, se lo scrittore non inventa le vicende di un Frédéric Moreau, di un Jude Fawley o di uno Zeno qualsiasi, ma mette invece in scena un noto personaggio della storia, misurandosi con la necessità di ponderare, nel solco di Manzoni, che cosa spetti all’uno e all’altro termine del “misto di storia ed invenzione”, come va configurandosi la peculiare forza conoscitiva della letteratura? Quanto alle vicende storiche, nella loro nuda sostanza “événementielle”, il narratore assai poco può aggiungere ai dati raccolti dagli studiosi, ai quali anzi deve affidarsi se di storia vuole scrivere (magari sforzandosi di “dir meglio” di loro, in fondo le parole sono i suoi ferri del mestiere, ma pur sempre dentro il quadro di conoscenze fissate dalla storiografia). E bisogna chiedersi allora, a proposito di Mussolini, se potrà mai arricchire ciò che del duce del fascismo già sappiamo grazie a De Felice, Milza, Musiedlak, Bosworth, Schieder (giusto per restringere a un pugno i nomi più importanti).

Manzoni, che forse è ancora d’aiuto, distingueva già ai tempi dell’Adelchi lo “storico” e il “poetico”, elaborando poi ulteriormente la sua estetica nei Promessi sposi, il romanzo in cui, seguendo Walter Scott, pone al centro del racconto, per dire con György Lukács, degli eroi “medi” (nel senso che non contribuiscono direttamente ai grandi eventi, ma si muovono nel minimo spazio di un agire gregario), veri “scandagli” però nello spirito e nelle consuetudini di un’epoca, evocata narrativamente rispettando i dati storici con assoluta fedeltà (una strada seguita anche da molti narratori della nostra epoca, e penso, a differenti livelli di qualità, a Mika Waltari o a Ken Follet). Dopo la stesura del capolavoro, Manzoni non cesserà di riflettere su un tema che evidentemente sollecitava la sua intelligenza e il suo senso morale di scrittore cristiano, addivenendo, negli anni Cinquanta a conclusioni drastiche, una vera palinodia rispetto alle certezze che sorreggevano i Promessi Sposi: il romanzo storico, questa la conclusione, è impossibile come equilibrio perfetto di verità e invenzione, essendo esso «un componimento nel quale deve entrare e la storia e la favola, senza che si possa né stabilire, né indicare in quali relazioni ci debbano entrare; un componimento insomma, che non c’è verso giusto di farlo, perché il suo assunto è intrinsecamente contraddittorio» (Del romanzo storico, 1850). Quanto invece ai pensieri segreti, ai sentimenti, alle speranze e delusioni di un cuore chiuso allo sguardo degli altri, il narratore, se è qui che vuol fare luce con i mezzi che gli sono propri, ci darà, a meno che non si tratti di un libro di memorie o confessionale (ma anche in tal caso, direbbe la “scuola del sospetto”, la diffidenza è d’obbligo), un sapere congetturale e smentibile. Magari ricco di suggestioni e stimoli, nel senso affermato dalla Nussbaum (alla luce del nihil humanum mihi alienum est), eppure, in ultima analisi, una semplice ipotesi sull’Io; utile educazione sentimentale, concediamo, in prospettiva generale e nel caso di un homo fictus, ma operazione veramente affidabile se riguarda uno specifico e concreto uomo storico?

Caricando il suo personaggio di “emotività”, muovendosi, quanto ad apporti nuovi, tutto dentro il registro degli affetti, lo scrittore non rischia di contrapporre alla storia una sorta di universo parallelo di emozioni e sentimenti plausibile ed accattivante quanto falso, “inquinando” la conoscenza storica proprio mentre cerca di implementarla? Nulla di grave se si narra di Sargon II o di Tamerlano, che sfumano nella leggenda, ma nel caso di un personaggio pubblico non solo discusso ma ambiguamente rilanciato da chi vorrebbe, se non una santificazione, una riabilitazione? Viviamo in Italia un particolare momento storico-politico: rigurgiti neo-fascisti agitano un Paese totalmente incapace di dissipare i propri fantasmi (Giorgia Meloni potrà anche negarlo per sé, ma il revisionismo è moneta corrente nei ranghi del suo partito) e politicanti grossolani e compromessi ma non dichiaratamente nostalgici (il Cavaliere e qualche suo lacchè) hanno la sfrontatezza di dichiarare, con sconcertante candore, che Mussolini fece anche cose buone. Un contesto che va tenuto nella giusta considerazione.

Scavare dunque nelle intermittenze del cuore dell’uomo Mussolini, quasi a “umanizzarlo” (ma che fosse un uomo, al pari di noi, non abbiamo bisogno di un narratore per capirlo), animando intorno a lui, con le più sofisticate tecniche del mestiere, scenari vivacemente chiaroscurali, non fa correre il rischio di renderlo ora “simpatico” (una certa “indulgenza” a proposito del duce giovane narrato da Scurati ha notato Carlo Troilo), ora di trasformarlo, se la strada è opposta, in una maschera del Grand Guignol (è quanto suggerisce Davide Turini a proposito del secondo capitolo della “saga”, definendo il romanzo un “pulp digestivo-evacuatorio”, sorta di Malebolge calate nella Storia vera)? Portandolo comunque lontano da quei cieli limpidi dove gli storici fanno del loro meglio per iscrivere i propri giudizi? Lasciamo per un attimo la parola all’anonimo redattore del Corriere della Sera che così presenta il capitolo iniziale di M., II parte: «l’incipit del romanzo, il secondo volume della saga dedicata alla storia di Benito Mussolini, introduce il lettore nella dimora del più sorprendente leader politico dell’epoca» (sorprendente? Un criminale che giunge al potere con la violenza, sradica la democrazia, perseguita minoranze etniche e religiose, precipita l’Italia in una guerra sbagliata per i principi e tragica per le conseguenze…), e seguiamolo nella sua breve incursione nel primo capitolo del libro: «15 febbraio 1925 // L’alito è pesante, il dolore addominale opprimente, il vomito è verdognolo, striato di sangue. Il suo sangue. I fogli inchiostrati planano nella pozza maleodorante. Impossibile leggere il giornale. Il suo corpo glorioso, gonfio d’ipersecrezioni acide e di gas, ingoia aria e cerca ossigeno reclinando il capo all’indietro sul bracciolo del divano. […] Dal bulbo duodenale, attraverso il piloro, fino alla bocca, una nuova ondata di vomito risale la trachea [ma non sarà piuttosto l’esofago? NdA]. Il corpo, istintivamente, in una palude di tremiti e sudori, cerca la posizione eretta, la direzione del bagno, la tazza del cesso. Benito Mussolini non muove nemmeno un passo. Appena in piedi, crolla di schianto. Il tonfo sordo di un corpo esanime che incontra un pavimento ricoperto di moquette rossa. Questo l’ultimo ricordo, l’addio con cui il Duce del fascismo si accomiata dal mondo».

Senza tralasciare la pezza d’appoggio storiografica, in calce al capitolo da cui abbiamo citato, grazie alla quale Scurati pretende di mettersi in pari con la Storia (e qualcuno ci cade: «ogni figura e avvenimento sono scrupolosamente ricondotti alle fonti dell’epoca», ha sostenuto Guido Caldiron sul Manifesto): «Riservatissimo, personale decifri da s. prego v.s. comunicare arnaldo mussolini che s.e. presidente. indisposto piuttosto seriamente stop egli ha sofferto nell’ultima settimana di disturbi gastrici i quali da ieri sono cresciuti di intensità. e richiedono alcuni giorni di riposo assoluto stop naturalmente notizia. per ora riservata. – Telegramma del ministro dell’interno al prefetto di Milano per Arnaldo Mussolini».

L’accenno, alquanto generico, ai “disturbi gastrici” (Renzo De Felice ha scritto di un “grave attacco di ulcera duodenale”, senza ulteriori dettagli) si è gonfiato (è il caso di dirlo) a lunghi stralci di virtuosistica paratassi, una cascata assordante di scrittura “nera” che evoca una scena oppressiva e ripugnante (è questo che ha inteso Battista, nella sua recensione sul Corriere, scrivendo di un sondaggio nella “fisicità” del personaggio, che «distingue e allontana [il libro] dalla pur necessaria freddezza analitica di un saggio storiografico»?). Passo esemplare dell’operazione di Scurati: non fa appello all’uomo razionale, cui chiede di seguirlo nel ragionamento per giungere insieme a un giudizio equilibrato ma prevarica e si impone per virtù di uno stile che tende alla seduzione emotiva e all’euforia sensoriale, come in certi moderni musei immersivi, studiati per prendere il visitatore per le viscere e orientare la formazione del giudizio.

Di nuovo, come in M. figlio del secolo, «tutto è enfatico e greve e i personaggi sono sbozzati attraverso caratterizzazione brutali», secondo l’analisi di Gianluca Simonetti, alla vigilia del conferimento del premio Strega (per inciso: come va in profondità uno studioso e saggista prestato al giornalismo rispetto a giornalisti che si avventurano nel saggismo, sia pure nelle poche colonne di una recensione!). Scurati, padrone perfetto del mestiere appendicistico (di neo-appendicismo come via d’uscita dal postmoderno ha scritto acutamente, qualche anno or sono, Bruno Pischedda), e alludiamo al genere con più forza di attrazione “popolare” (e già pronto, con i suoi canovacci, per un trasposizione sullo schermo), spreme tutta la feccia della pianta-uomo per il suo cupo drammone di violenza e orrore. Ma cosa resta allora della limpidezza del giudizio che lo storico pronuncia, con spirito di equilibrio e neutralità, anche grazie ad una scrittura, si dice per metafora, quasi ascetica per il suo “anonimato”? E può suscitare indignazione la truce macchietta che campeggia in questo “noir” così fedele ai cliché di genere?

Detto questo veniamo al punto forse decisivo: la scelta tematica; perché dunque Mussolini? Senza voler porre nessun limite alla fantasia di uno scrittore che ha il pieno diritto di individuare il suo argomento congeniale, non c’è forse, nella decisione di Scurati, un filo di opportunismo e ambiguità nell’ accarezzare, con sicuri risultati di marketing, i pruriti di un popolo incapace di fare criticamente i conti con il passato? Il narratore ha affermato di aver voluto offrire un contributo «al risveglio di una coscienza democratica» («a lettura ultimata», ha aggiunto, «l’antifascismo verrà rafforzato nei lettori»). Ma giocare la carta Mussolini, lanciando un messaggio (piuttosto un urlo che un ragionamento), nella fornace delle emozioni e della partigianeria politica è la strada giusta per perseguire obiettivi “illuministici”?

Concludo: quanto alla conoscenza storica (nella cui processualità si inverte, rispetto al romanzo, il rapporto gerarchico e funzionale narrazione-apparato documentale e che fonda sulla distanza critica il suo percorso epistemologico) M. è una corsa sul posto, quanto all’“uomo segreto”, ai suoi giorni mai svelati, alle ignote debolezze, ai pensieri nascosti, alla peristalsi – quella “decorazione d’interni” cui andava tutto il disprezzo di Hemingway – una scommessa insieme furba e rischiosa. Come direbbe il saggio Don Lisander, bene (fin troppo) per l’“interessante” (con le trovate appendicistiche, i colpi di scena, le impennate di scrittura espressionistica), un po’ meno, e con riserva, per il “vero”, ma quanto all’“utile”, assai male per una nazione «in ordine alla morale, più sprovveduta di fondamenti che forse alcun’altra nazione europea e civile» (Leopardi).

 

 

Antonio Scurati

M

L’uomo della Provvidenza

Bompiani, Milano 2020

  1. 656, euro 23,00