Icone cinematografiche da Hollywood

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La collezione John Kobal in mostra al Palazzo delle Esposizioni di Roma

di Michele De Luca

 

A parte lo stretto e imprescindibile legame tra fotografia e cinema, che senza l’invenzione di Louis Daguerre non sarebbe mai esistito, la fotografia ha molto contribuito a far crescere il “mito” della celluloide; (“Su questo schermo – ha scritto André Breton – tutto ciò che l’uomo vuole sapere è scritto a lettere fosforescenti, a lettere di desiderio”), soprattutto attraverso la creazione di “icone” specie negli anni d’oro delle grandi produzioni hollywoodiane (a partire dagli anni ’20), che hanno popolato – e continuano a popolare – l’immaginario collettivo di tutto il mondo.

È alla fotografia che si deve il “divismo”, un fenomeno di costume nato nel XX secolo che consiste, essenzialmente, in un processo di “divinizzazione” di un individuo, la cui immagine diventa un’icona altamente simbolica e onnipresente nella vita della gente comune, al pari quasi di quello che era stato per le icone religiose del passato.

Attraverso una selezione di centosessantuno bellissime foto provenienti dal colossale archivio della Fondazione John Kobal, in possesso di oltre quattromila ritratti, la mostra “Hollywood Icons”, tenutasi dal 24 giugno al 17 settembre presso il Palazzo delle Esposizioni di Roma fa rivivere una magica stagione non solo del cinema, ma anche della storia della fotografia, che assurge a mezzo comunicativo di grande fascino e di sempre più vasta popolarità (anche attraverso la “risonanza” di giornali, riviste e rotocalchi).

John Kobal (Linz, Austria, 1940 – Londra 1991), nato Ivan Kobaly, assunse il nome con cui è conosciuto quando, all’età di dieci anni, si trasferì in Canada con la sua famiglia. Compiuti gli studi liceali, fu per un breve periodo a New York, per trasferirsi poi definitivamente a Londra dove fissò la residenza per tutto il resto della vita. Iniziò a collezionare fin dall’adolescenza cimeli cinematografici e immagini dei divi di Hollywood, incrementando la collezione negli anni in cui girava per il Regno Unito come attore. Dal 1964 iniziò a collaborare come freelance in programmi radio della BBC, con frequenti corrispondenze dagli Stati Uniti, in particolare a New York e Los Angeles, cosa che gli offrì l’opportunità di approfittare della chiusura di molti studi cinematografici per acquisirne gli interi archivi fotografici, divenendo in tal modo un punto di riferimento ogni qual volta si rendeva necessario disporre di un’immagine di qualità di Joan Crawford o Bette Davis, di Gary Cooper o Lana Turner, Marlene Dietrich o Clark Gable, Charlie Chaplin o Mary Pickford, Hedy Lamarr o Gloria Swanson. Molti dei ritratti in bianco/nero di questi ed altri attori, divi di fami internazionale e stelline di effimere carriere sono opera di grandi fotografi operanti nella prima metà del Novecento e Kobal entrò in contatto con gli aiutori di quelle immagini e li incoraggiò anche a produrre nuove stampe per mostre che allestì nei musei più prestigiosi del mondo come il Victoria & Albert Museum e la National Portrait Gallery a Londra, il MoMA a New York, la National Portrait Gallery a Washington DC, il Los Angeles County Museum of Art a Los Angeles. Una parte di quelle stampe è stata presente quest’estate nella mostra romana di Via Nazionale.

John Kobal scomparve prematuramente a cinquantun anni nella sua Londra, essendosi conquistato negli ultimi anni della sua vita una solida fama di storico del cinema, autore di circa trenta libri.  Alla sua morte nell’ottobre 1991, la Fondazione John Kobal, istituita nel 1990, ha ricevuto la sua collezione di negativi fotografici originali 8×10 e stampe d’arte prodotte dai fotografi degli studi di Hollywood. Fin dall’inizio la Fondazione ha fatto donazioni, ha sostenuto mostre e promosso lo studio di Hollywood classica attraverso la pubblicazione di molti libri.

L’esposizione romana ha esibito il lavoro di più di cinquanta fotografi tra cui

Clarence Sinclair Bull, Eugene Robert Richee, Robert Coburn, William Walling Jr, John Engstead, Elmer Fryer, Laszlo Willinger, A.L. “Whitey” Schafer e Ted Allan, i quali crearono le immagini scintillanti degli stessi divi per consegnare alla memoria vere e proprie “icone” che ci fanno rileggere cinque decenni di utopie, di prefigurazioni, di sogni; che è quello che il pubblico “cerca” nel cinema. Anzi, come meglio ha scritto Hugo von Hofmannsthal, ciò che la gente vuol trovare sullo schermo e nel “mondo” del cinema è il “surrogato dei sogni”, volendo “riempire la sua fantasia con immagini in cui si concentri l’essenza della vita”.