Geometrie di palude

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Nella sua più recente personale Fulvio Dot cambia tutto o quasi

di Walter Chiereghin

 

Il monfalconese Fulvio Dot ci aveva abituato, da tempo, ai suoi paesaggi urbani, sovente declinati nelle visioni seduttrici di edifici di indiscutibile pregio storico e architettonico: palazzi veneziani le cui facciate tardogotiche si riflettono sulla superficie dei canali, oppure agglomerati di fabbricati delle isole dell’Egeo, spontaneamente aggregati attorno alle cupole blu delle chiese ortodosse. Più di recente, le architetture disegnate da Dot avevano abbandonato l’aura trasognata di quelle visioni di esplicito richiamo a stagioni remote della storia dell’arte, per concentrarsi su palazzoni novecenteschi, periferie recenti edificate sulla serialità modulare degli spazi nella rigidità di un incasellamento rigorosamente euclideo cui solo episodicamente il ricorso al cemento armato consente qualche digressione dall’ortogonalità delle linee architettoniche dettate da un disegno strettamente aderente alle esigenze di organizzazione razionale di spazi e volumi.

In una sua personale allestita alla Galleria La Fortezza di Gradisca d’Isonzo nello scorso settembre, Dot ha presentato la sua più recente produzione di opere su carta. Come preannuncia il titolo della mostra, Storie di carta. Tra lockdown e zona rossa, le opere sono state pensate ed in parte eseguite nelle fasi più ardue della pandemia, quando era interdetto all’artista, coma a quasi tutti noi, l’uscire di casa, anche solo per recarsi nel suo studio, dove giacevano inerti le tele, i vasetti di acrilico, i pennelli, i cartoni ondulati, le tele grezze di origine militare, le catene, le fibbie e i bottoni e tutto quanto finisce poi per confluire sulle sue articolate composizioni, sovrapponendosi e integrandosi con la base del dipinto, di norma le visioni architettoniche cui  abbiamo accennato. Per sottrarsi all’inazione che evidentemente gli va stretta, l’unica soluzione era disegnare e si accorse così che, nella povertà dei mezzi a sua disposizione in casa, poteva indirizzarsi in via quasi esclusiva al disegno a matita su carta e quanto inopinatamente ne risultò fu del tutto diverso, per le tematiche oltre che per la tecnica, rispetto al suo consolidato modus operandi. Fu così difatti che Dot tradì una seconda volta l’architettura, mai praticata nonostante la laurea conseguita a Venezia (v. intervista Le architetture trasognate di Fulvio Dot su Il Ponte rosso n. 47 del luglio 2015).

Le opere esposte a Gradisca, difatti, segnano l’abbandono da parte dell’artista della sua consueta ambientazione urbana, per rivolgere l’interesse alle immagini di paesaggio, quello silvestre e spesso palustre delle campagne che circondano Monfalcone e si spingono da un lato verso la foce del Timavo, dall’altro verso il delta di quella dell’Isonzo.

«Nel periodo della segregazione imposta dalla lotta al virus – mi confida davanti le sue immagini esposte – ho sentito la necessità di confondere quella mia solitudine con quella degli spazi aperti e delle piante, nel silenzio rotto al massimo dai fruscii del vento. Mi sono nate le cose che vedi qui, la riproposizione in bianco nero delle trame dei rami che si intrecciano tra loro e che si riflettono nell’acqua, quando c’è. Il disegno mi è sembrato fin dall’inizio lo strumento più adatto a replicare quanto mi colpiva nelle mie camminate solitarie, semplicemente linee tracciate a penna su carta di cotone che si intersecano sui fogli che continuavo a riempire».

In origine, il nuovo corso sarà probabilmente stato così: poco più che una notazione sintetica, schizzi che riproducono uno scorcio di paesaggio, seguendone lo sviluppo in una composizione ritmata dall’intersecarsi dei rami spogli in linee essenziali, ma che quasi automaticamente si ordinavano dando corpo a un disegno che riproduce con forte realismo, ma anche con altrettanto vigoroso allestimento scenico, le visioni che l’autore trasferisce sul foglio, combinando con sapienza tra loro la verticalità dei fusti con i rami spezzati e colti nella loro postura orizzontale, segmenti spesso duplicati nella specularità dei riflessi sulle superfici dell’acqua che – come accade nei canali veneziani delle sue inconfondibili tele – si offrono per aggiungere ulteriori suggestioni all’impianto compositivo delle immagini.

All’elementare connubio dei tratti di penna sulla carta, l’anelito di ricerca che assilla l’artista ha presto aggiunto tecniche e materiali diversi, spostando il suo campo d’azione su inchiostro e acquerello, sempre su carta, in fogli o organizzata in taccuini e piccoli quaderni e poi, su tavola, smalti e grafite in polvere, aggiungendo suggerimenti appena avvertibili di colore al rigoroso bianco e nero degli esordi di tale sua nuova maniera.

Geometrie di palude è il titolo che Dot ha assegnato a questa sua più recente produzione, che nella sua poetica costituisce un nuovo approdo, del quale ancora non sappiamo se sia a uno scoglio oppure a un continente.

 

 

Storie nere nel bosco

grafite, smalto e stucco

su tela applicata a pannello, 2021