La notte della Repubblica secondo Bellocchio

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di Stefano Crisafulli

 

Esterno notte: mentre le ombre del crepuscolo rendono le erme un po’ più inquietanti, il Giardino Pubblico di Trieste, la sera, si trasforma e diventa cinema. Esterno notte è anche il titolo di un film lungo presentato quest’anno dal regista Marco Bellocchio in anteprima al festival di Cannes e che, dopo esser stato distribuito nelle sale in due parti (Esterno notte 1 e 2), diventerà una serie televisiva per la Rai in sei puntate. Il pubblico triestino ha potuto seguire entrambe le parti il 29/8 e il 2/9, grazie all’associazione Casa del cinema. Che Bellocchio sia particolarmente interessato ad una delle pagine più nere della storia italiana recente, ovvero il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse, lo dimostra non solo Esterno notte, ma anche un film precedente, Buongiorno, notte, del 2003, altrettanto potentemente evocativo. Sono cambiati, però, i punti di vista, dato che lì il film era incentrato sulla prigionia di Moro, mentre qui si raccontano le storie di più personaggi: Cossiga, Paolo VI, Eleonora Moro, due brigatisti. E sono cambiati anche gli attori: Moro era interpretato da Roberto Herlitzka, mentre in Esterno notte è Fabrizio Gifuni a farsi carico della figura tragica dell’ideatore del ‘compromesso storico’, ossia di quell’accordo tra DC e PCI che avrebbe portato per la prima volta in Italia i comunisti ad appoggiare un governo. E diciamo subito che Gifuni, senza nulla togliere agli attori che hanno realizzato quest’impresa in passato, si è adeguato al ruolo in modo straordinario, tanto da incarnarne anche le debolezze, come l’ossessione per l’igiene delle mani, e le qualità meno appariscenti. Se poi a fare Paolo VI ci pensa Toni Servillo, allora ci si rende conto che Bellocchio ha voluto con sé una serie di pezzi da novanta del cinema italiano, come Margherita Buy nella parte della moglie di Moro e Fausto Russo Alesi in quella di Francesco Cossiga.

Ad ogni modo il racconto di quei 55 giorni che intercorrono tra il rapimento di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse, avvenuto il 16 marzo 1978 in via Fani, e la sua uccisione, con il ritrovamento del cadavere in una Renault rossa posteggiata in via Caetani, il 9 maggio 1978, simbolicamente a metà strada tra via delle Botteghe oscure (sede del PCI) e piazza del Gesù (sede della DC), rimane uno spartiacque nella storia politica e sociale del paese, tanto da fissarsi nella memoria di molti, anche in quella del sottoscritto. All’epoca, infatti, avevo solo dieci anni, ma mi ricordo che quell’evento mi sconvolse parecchio e, per questo, conservai la celebre foto di Moro rapito con il giornale in mano incollata in un quaderno. Mi aveva impressionato, nella foto, quel volto sofferente, quasi distorto in una sardonica smorfia di rabbia per un destino che non voleva e che non considerava, come invece sembrava facessero senza alcun scrupolo i suoi ex amici della DC, inevitabile. Ed è quel che emerge anche dal film di Bellocchio. Coacervo di visioni oniriche (i cadaveri trascinati dal fiume in un sogno di Adriana Faranda), cristologiche (Moro che porta la croce durante la via Crucis) e tragiche (vedi la figura dolente di Eleonora Moro), ma allo stesso tempo anche concretamente politiche, il film di Bellocchio è, tra le altre cose, un atto d’accusa verso la Democrazia Cristiana, rea di aver abbandonato Moro al suo destino, in quanto uomo del compromesso storico (inviso a molti), nella notte più nera della Repubblica.

 

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Toni Servillo e Fabrizio Gifuni

Foto di Anna_Camerlingo