Musica e destino
Francesco Carbone | gennaio 2022 | Il Ponte rosso N° 76 | MUSICA
Riflessioni suscitate dalla pubblicazione di un cofanetto di 55 CD con tutte le incisioni in studio e le registrazioni dal vivo realizzate da Wilhelm Furtwängler
di Francesco Carbone
Agosto 1951. Il Quartetto Italiano – uno dei supremi quartetti d’archi del XX secolo – suona a Salisburgo. Al concerto assiste Wilhelm Furtwängler. Il Mastro ha 65 anni, è con Toscanini il più celebre direttore d’orchestra del mondo, ha alle spalle un passato controverso e contestato per essere stato – anche se mai iscritto al NSDAP – il direttore più simbolico del Terzo Reich; sarebbe morto tre anni dopo, sordo di un orecchio, abbandonandosi consapevolmente alla fine: da tempo dirige potendo solo intuire i pianissimo dei violini (A. Roncigli, Il caso Furtwängler, Zecchini Editore 2013). Il Quartetto Italiano, già celebre, è formato da musicisti che hanno tutti più o meno trent’anni. È l’unico quartetto che suoni a memoria, senza spartito. Alla fine del concerto, Furtwängler li invita nella sua stanza. Suonano per due volte il Quintetto op. 34 di Brahms.
Discutono dei Quartetti di Beethoven, che Furtwängler conosce a memoria; il direttore esegue al piano alcuni passaggi. Per i giovani del Quartetto è un’esperienza sconvolgente. «Dopo quell’incontro, fu la crisi: la «grande libertà, il suo immenso respiro, l’intuizione tragica: ci hanno aperto il mondo. Noi abbiamo vissuto una crisi di quasi un anno dopo aver incontrato Furtwängler, perché avevamo compreso che la musica si faceva in un altro modo; è stata per noi una folgorazione come se sotto di noi si fosse spalancato l’infinito» (Elisa Pegreffi in Quartetto Italiano, film di Nino Crescenti 2007). Furtwängler mostrò che il tempo musicale non dipende dal metronomo, che non è una quantità ma una qualità: nel momento in cui si dà, non corrisponde a una realtà fisica meccanicamente misurabile e quindi riproducibile, ma al farsi, nel qui e ora dell’esecuzione, di un imponderabile ma lì evidente verità musicale, di una qualità che tiene assieme i musicisti, gli ascoltatori, il luogo, il tempo storico e il tempo della vita. È celebre di Furtwängler la frase: «dirigo ciò che sta dietro le note»: le note da sole sono solo un segno che indica qualcosa di essenziale che è dietro, e che è la musica.
Anche nei ricordi di Daniel Barenboim la direzione di Furtwängler ha lasciato «la sensazione di un processo […] che sembra svilupparsi da sé proprio nell’attimo stesso. Non c’è alcuna formulazione prestabilita. Non c’è programma. Tutto è contenuto nell’esecuzione: credo che per alcuni pubblici questo sia molto difficile da accettare»; e le prove erano per l’orchestra il modo di sentirsi dire «No in duecento modi diversi, nella speranza che la sera del concerto saresti riuscito a dire finalmente Sì. In altre parole, le prove servivano ad assicurarsi che certe cose non accadessero» (D. Barenboim, Paralleli e paradossi, Il Saggiatore 2008).
È questo «lo stile filosofico, antimetronomico di Furtwängler» (A. Ross, Il resto è rumore, Bompiani 2009). Quando chiedevano al Maestro a che tempo avrebbe staccato un certo passaggio, rispondeva: «Non lo so, dipende da come suona». Cosa vuol dire? Per esempio, quando il brano ha come in Brahms una grande densità armonica – molti suoni nello stesso momento – il tempo va naturalmente dilatato. Al contrario, quando il passaggio è armonicamente leggero, si dovrà essere più agili: ma questa non è che un’indicazione generalissima, che può essere praticata in un milione di modi diversi. All’inizio, c’è l’insegnamento di Richard Wagner: il fatto che per esempio in Bach non troviamo alcuna indicazione del tempo, «sotto l’aspetto autenticamente musicale, è la cosa più esatta» (R. Wagner, Del dirigere, Studio Tesi 1989). In verità, non solo in Bach ma in nessuno spartito è già rivelato il segreto della inégalités dei tempi musicali (G. Gianmarino, La tradizione di Furtwängler, Huffpost 12 aprile 2021). «Nello spartito c’è tutto tranne l’essenziale», diceva Gustav Mahler: per quell’essenziale, la grande musica reclama il grande interprete.
Furtwängler lo chiamava il «paradosso di Sigfrido»: nel mito, il fabbro foggia la spada dell’eroe, che però viene subito fatta a pezzi per la collera di un dio. Il fabbro raccoglie quei frammenti e li rifonde per creare una nuova spada che, nelle mani di Sigfrido, diverrà capace di uccidere il drago. Così è nella musica: il compositore la scrive, ma questa nella partitura è come una spada subito infranta: perfino per lui eseguirla sarà un azzardo (si può pensare a quanto sono deludenti le interpretazioni che Stravinsky o Ravel hanno dato delle loro musiche). Come il fabbro che ricrea la spada di Sigfrido, l’interprete agisce a partire da una catastrofe: dal fatto che sulla carta la musica è consegnata a una vita appena latente, Ricomposta nell’interpretazione, la musica si offrirà intera solo nel concerto: al pubblico tutto questo deve apparire come un atto spontaneo, tutto deve sembrare nascere lì, inevitabilmente. Sergiu Celibidache – il successore mancato di Furtwängler alla guida dei Berliner Philharmoniker – porterà alle estreme conseguenze questa visione, rifiutando per tutta la vita il disco come documento veritiero del fatto musicale (cfr. U. Padroni, Sergiu Celibidache Zecchini 2009).
Questo universo che si svelò al Quartetto Italiano una notte a Salisburgo, si potrebbe sintetizzare come il passaggio da Toscanini a Furtwängler.
La Warner Classics ha pubblicato a settembre un cofanetto con 55 cd (The Complete Wilhelm Furtwängler on Record) in cui è raccolto l’intero catalogo di incisioni in studio e di tutte le registrazioni dal vivo realizzate dal Maestro con lo scopo della registrazione. I dischi sono stati rimasterizzati sotto la direzione di Christophe Hénault, oggi tra i massimi tecnici del suono. Si può leggere qui una sua intervista, in francese, in cui spiega i criteri del restauro: https://www.crescendo-magazine.be/christophe-henault-servir-le-patrimoine-de-lenregistrement/.
Per limpidezza di suono e ricchezza dinamica, sono diventate stupefacenti la Sesta di Tchaikovsky de 1938, la Quarta di Schumann del 1953 («dynamique incroyable»,) e tutte le registrazioni del gennaio-febbraio del 1950, con un Valzer dell’Imperatore di Strauss (1950) che dà «l’impression d’être dans la Salle de concert». Quanto alla Quarta di Schumann, «si tratta probabilmente della più straordinaria incisione mono di quegli anni» (M. Modugno, Furtwängler e Böhm alla prova del disco, Musica n. 332).
Questa della Warner non è un’integrale: per chi volesse, sarebbe da completare con il box Documents del 2015 (41 cd) che comprende il leggendario Ring eseguito alla Scala nel 1950, il Don Giovanni di Mozart e l’Otello di Verdi, entrambi ripresi al festival di Salisburgo del 1950. Mancano nelle due raccolte le incisioni dei concerti degli anni di guerra coi Berliner: soprattutto le sinfonie di Beethoven, dilaniate, estreme, tragiche fino alla «follia sonora» (A. Roncigli, op. cit.). Quel Beethoven era, nell’illusione di Furtwängler, il suo grido antinazista, anche se eseguito in una scenografia di stendardi con la croce uncinata, al cospetto dei gerarchi del Reich (cfr. M. Aster, L’Orchestra del Reich, Zecchini 2011). Tragica ambiguità di Furtwängler: si può vedere su YouTube il finale della Nona di Beethoven, al concerto del 19 aprile 1942: il ministro della propaganda Goebbels stringe calorosamente la mano al direttore, che pare rispondere sempre più stancamente, non vedendo l’ora di ritirarla. Nella sinistra Furtwängler ha il fazzoletto; qui nel filmato c’è un taglio. Quando l’inquadratura torna sul direttore, il Maestro si passa il fazzoletto dalla mano sinistra alla destra: per forbirla – direbbe Dante – da quell’oltraggio? Così è stato letto quel gesto da chi all’antinazismo subliminale di Furtwängler vuol credere… Ma il politicamente molto ingenuo Furtwängler forse non aveva del tutto torto, a pensare quel suo Beethoven come alla massima ribellione possibile: se è vero che «a Göring non piaceva che i suoi ospiti passassero le serate nella buia Philarmonie, a sentire quello sciamannato di Furtwängler dare le sue plumbee versioni del virilismo beethoveniano»: molto meglio il vitalistico giovane e per niente amletico Karajan, che s’era iscritto al partito nazista già nel ’35 (A. Zignani, Herbert von Karajan, Zecchini 2008).
Torniamo al cofanetto della Warner. Furtwängler – come gli altri due grandissimi Toscanini e De Sabata – nutriva «una severissima diffidenza nei confronti del disco» (U. Padroni, op. cit.): non solo per l’impoverimento della resa musicale delle registrazioni mono di quegli anni, il disco era visto come un fantasma sbiadito, un documento residuale, che fermava in un momento casuale quel processo vitale e sempre in cammino che è l’interpretazione. – È celebre una sfuriata di Furtwängler negli studi – allora i migliori del mondo – della His Mater’s Voice (poi EMI) a Londra. Siamo nel giugno del 1952. Si sta registrando il Tristan und Isolde (proprio l’edizione che ora si trova nel cofanetto Warner). Il produttore è il già mitico Walter Legge. Elisabeth Schwarzkopf, che era la moglie di Legge, racconta che Furtwängler, riascoltando il registrato, rabbioso non riconobbe più i suoi tempi: accusò addirittura i tecnici di aver rallentato l’esecuzione, cosa allora impossibile se non alterando l’altezza dei suoni (E. Schwazkopf, Su e Dal Record: Una Biografia di Walter Legge, Faber and Faber 1982). Era solo accaduto che le condizioni di quell’ascolto erano già diverse dal momento – poche ore prima! – in cui avevano registrato; e che la stessa musica, ma restituita da un nastro invece che dal vivo dell’orchestra, era un’altra: tornava la maledizione della «spada di Sigfrido»… che è poi la maledizione di ogni scrittura senza interpretazione, come abbiamo imparato dal Fedro di Platone.
Su come lavorasse Furtwängler quando incideva, c’è su YouTube una prova bellissima della Quarta di Brahms a Londra (1948). Lì si rivede il gesto, celebre proprio perché «inintelligibile»: la definizione, ma ce ne sono rimaste a iosa, è di Giulini, che fu diretto dal Maestro quando era violista dell’Accademia di Santa Cecilia. Sempre Giulini insegnava ai suoi allievi come quel gesto «teoricamente del tutto sbagliato» potesse dare il risultato giusto (A. Zignani, Carlo Maria Giulini, Zecchini 2009).
Se Toscanini era un prodigio di chiarezza e di nitore, Furtwängler poteva sembrare quasi un epilettico. Ai due gesti corrispondono non solo due modi di intendere la musica, ma la vita. Quando Furtwängler ascoltò Toscanini. all’inizio della Nona di Beethoven, correre per di più a un tempo sempre uguale, «si alzò e uscì dalla sala “maledetto metronomo” sacramentando» (A. Roncigli, op. cit.). Eppure le interpretazioni di Toscanini sono state essenziali, in anni molto più vicini a noi, per la rivoluzione filologica che a partire dagli anni ’90 ha portato alle versioni – tra le stupende – di Gardiner con strumenti originali e, recentemente, con orchestra moderna, di Riccardo Chailly, in questo caso col recupero dei tempi originali assai veloci e impossibili indicati da Beethoven in partitura.
La forza di Toscanini è di far sentire l’unità, la consequenzialità architettonica delle sinfonie. Si potrebbe dire che, se Beethoven è un mare, con Toscanini si corre a pelo d’acqua su un surf col vento sulla faccia, e si arriva a destinazione; con Furtwängler si sale e scende nei maelstrom abissali, oltre le note: più in fondo e più in alto delle note: sempre con lui il mare di Beethoven è abissalmente profondo.
Riassume Furtwängler forse meglio di tutti il baritono Dietrich Fischer-Dieskau: «Era una persona molto ingenua, se vogliamo con tratti infantili, non si occupava di politica, […] non voleva neanche sapere ciò che stava accadendo nel mondo. Si dedicava solo alla sua orchestra e alla sua musica, nient’altro. Ovviamente sbagliava, ma era fatto così. […] E non gli piaceva mettere troppa precisione nel dirigere, non amava il dettaglio, non si concentrava sulla tecnica […]; gli attacchi erano un po’ fantasiosi ma lavorava sempre con musicisti che conoscevano il suo modo di fare musica» (La voix de l’âme, film di Bruno Monsaigeon 1995).
Toscanini rimproverò molto aspramente – a Salisburgo – Furtwängler per la sua accondiscendenza al nazismo: dirigeva per Hitler e i suoi gerarchi, dunque era un nazista. Furtwängler replicava sfumando, problematizzando, proprio come avrebbe fatto al processo che subì dopo la guerra. Malgrado questo, quando Toscanini nel 1936 lasciò la direzione della New York Philarmonic, propose Furtwängler come suo successore. E il tragico fu che Furtwängler avrebbe accettato, se l’offerta non fosse stata intercettata dai servizi segreti tedeschi, che risposero a suo nome con un rifiuto. Toscanini uscì dagli anni di guerra ancora più leggendario di quanto fosse stato prima; Furtwängler si ritrovò ferito, in molti momenti umiliato e alla fine annientato.
Restano i dischi. In questo box, più di settanta ore di musica. Risuonano ancora il Concerto n.5, Imperatore, di Beethoven con Edwin Fischer: poiché ascoltare vuol dire anche confrontare con altre versioni, questa è da paradiso. Nelle tre versioni presenti nel box della Quinta di Beethoven, toglie sempre il fiato il passaggio dal terzo all’ultimo movimento: nessuno, davvero nessun altro, dà il suo senso di progressione, come di un mare che prende a smuoversi per sollevarci fino al punto in cui si esplode tra le nuvole in cielo: per aspera ad astra in una «apocalittica notte della ragione» (A. Zignani, Carlos Kleiber, Zecchini 2010). E, se un consiglio è permesso, cominciare con lo shock della Marcia funebre di Sigfrido nel Crepuscolo degli dèi (1954), qui e solo qui stravolta catastrofe del cosmo.
Berlino, 1929
da sinistra verso destra:
Bruno Walter, Arturo Toscanini,
Erich Kleiber, Otto Klemperer
Wilhelm Furtwängler