Endecasillabo mon amour

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Le mille vite di un seduttore

Ancora oggi l’endecasillabo piace, anche se non ce lo confessiamo, perché abbiamo orrore di esser presi per quelli che al cinema piangono al buio

di Roberto Pagan

 

Piace. L’endecasillabo piace, sfido se piace. È connaturato con la lingua poetica italiana, ab ovo, ab origine.

Dice che l’abbiano inventato i Siciliani, insieme con le forme strofiche. Da allora ha dimostrato resistenza e duttilità.

Gli stilnovisti ne hanno fatto un arabesco pregotico: press’a poco Duccio di Buoninsegna. Dante l’ha riportato al romanico. Il suo verso è maschio e sodo e – grazie al plurilinguismo – ha la versatilità inesauribile dei capitelli dei chiostri. Petrarca ha scelto un suo monolinguismo: ma ha fatto il miracolo di lasciar decantare la propria spaventosa erudizione latina armonizzando l’endecasillabo su linearità essenziali. Naturalmente ha poi monopolizzato la nostra lirica per secoli, quanto ai temi e alla lingua. L’endecasillabo no. I poeti migliori hanno sempre trovato il modo di riproporlo in salse varie. Nel Quattrocento, nel Cinquecento, nel Seicento l’endecasillabo ha continuato la sua strada, si è rivestito di volta in volta con i panni di moda, si è adeguato ai diversi costumi.

Fuori dalla lirica, dove meno imperava Petrarca, l’endecasillabo ha trovato i suoi sbocchi più originali. Per non parlare del poema eroico, dove l’endecasillabo, sposato alle rime, impazza felice come un gallo nel pollaio, un filone importante, certo sottovalutato, è quello della poesia “comica”: il grottesco, il satirico, il popolaresco. Naturalmente, anche qui, Poliziano o Lorenzo o il Pulci hanno ricuperato premesse che c’erano già, il sangue e le polpe del realismo “borghese”.

Il “capitolo” cinquecentesco e l’Ariosto delle Satire ne hanno fatto uno strumento importante: sempre sottovalutato. Comunque un filone realistico, sanguigno, ridanciano o amaro e sarcastico, ha sempre attraversato nei secoli la letteratura italiana, ma confinato un po’ nelle cantine, in soffitta, nei soppalchi –

come cosa di cui vergognarsi. Come le pudende. Roba di serie B: per ragioni ideologiche, moralistiche, di estetica bembesca.

Bembo è stato il Croce del Rinascimento. Come Croce ha più colpe che benemerenze. Ma, come Croce, a modo suo aveva più ragione degli altri.

Con Marino poi l’endecasillabo diventò barocco, un’esplosione di tropi e pinnacoli: fino all’implosione. Con Metastasio, costretto a convivere col settenario, diventò rococò, tutto rosa e pistacchio e dorature di stucchi come le chiese del Tirolo e della Stiria, ma, nel fondo, diaccio come una lama di vitreo buonsenso. L’illuminismo alle porte. Così gli uomini sotto la parrucca pensavano alla rivoluzione;mentre le donne, con parrucche e crinoline, ne avevano già fatta un’altra di rivoluzione, quella del sesso.

L’abate Parini per satireggiare i costumi rispolverò la tradizione giocosa. L’endecasillabo del Giorno è una grande lezione. Paragonate il Giorno con le Odi.Queste sono croste di maniera: un Metastasio moralizzato, un’Arcadia un po’ più pensosa – con qualche cosa di neoclassico, un respiro più ampio, le poche volte che rispunta fuori l’endecasillabo, grazie a Dio, e allora il minuetto si interrompe. Ma il Giorno è tutta un’altra cosa. Perché? Perché Parini ha trovato la ricetta, semplicissima e geniale. La lingua restava la stessa, ma bastava caricare le tinte, gonfiare le gote, esasperare gli elementi retorici portando i tropi sopra le righe, ed ecco che l’endecasillabo si trasformava in una spada, lasciava il segno come uno schiaffo. Va da sé che occorreva tutta la sapienza umanistica in chi scriveva ma anche in chi leggeva per cogliere il controcanto, le variazioni sul tema, le voci in falsetto, il gusto della citazione.

Con il neoclassicismo rivoluzionario vennero fuori i corni e le fanfare, e si costruirono templi ionici e piramidi egizie. A seconda dei casi e dei materiali usati, e cioè a seconda della statura degli scalpellini, i monumenti furono di gesso o di marmo. Monti, come Thorvaldsen, rimase gessoso. Canova stava un po’ lì

tra il marmo e il gesso, nel senso che anche i suoi marmi sanno un po’ di talco, mentre i suoi gessi sono lucidi come il marmo di Paro o di Carrara. Foscolo, come Beethoven, lavorò, checché se ne dica, quasi sempre col marmo. E il suo endecasillabo, teso come quello di Alfieri, ma assai meno spigoloso, cantò a pieni polmoni e suonò sinfonico in tre grandi sonetti e nell’ordito più libero dei Sepolcri.

Era il raggiungimento più alto nella dimensione del monumentale. Con lo stile impero non si poteva andare più in là. Un secondo impero avrebbe fatto ridere, come di fatto fece ridere Napoleone III le Petit dopo Napoleone il Grande. Del quale si può avere anche il concetto peggiore; ma certo non è uno di cui si ride: così come non facevano ridere le sue divise, mentre erano già più comici i pennacchi dei suoi Murat.

Perciò l’Ottocento romantico, che certo, di suo, non aveva gran voglia di ridere, dovette innovare.

Manzoni, non sapendo innovare la lingua, innovò i ritmi. Decasillabi, alessandrini, poi smise addirittura di far versi e si rivolse alla prosa. Qualche endecasillabo buono però l’aveva pur consegnato all’Adelchi, con belle sonorità di violoncelli e corni inglesi in lontananza e paesaggi silvestri e montani: una via di mezzo tra l’ultimo Rossini (quello del Mosé) e il primo Verdi (quello del Nabucco). Leopardi rinunciò anche lui alle forme chiuse, e con gli idilli fece qualche cosa di semplice e di raffinato insieme. Certo è stato già detto, e detto giusto, che la Sera del dì di festa o le Ricordanze hanno qualche cosa dei notturni di Chopin. L’endecasillabo è tutto interiorizzato, e a volta a volta singhiozza o, tra le lacrime, lascia filtrare la luce e si strugge di tenerezza. Ma per far ciò ha abbandonato per strada quasi tutti gli orpelli, ha ritrovato la pronuncia piana di Petrarca o del Tasso migliore, quello meno patetico, e ha semplificato il linguaggio, mantenendo solo qua e là qualche parola anticata: che serve in fondo – e in ciò aveva visto giusto Bembo – a sottrarre la lingua della poesia alla banalità del quotidiano e al logorio del tempo.

In un certo senso, hanno avuto meno problemi a innovare, anche allora, i meno colti, quelli che d’istinto hanno cambiato addirittura la lingua: Porta e Belli. Cambiando la lingua hanno rinverginato anche l’endecasillabo: e lui, sempre pronto, si è adeguato con naturalezza a ciò che quei due avevano dentro, prendendo tutti i toni e i colori della sghignazzata tragica e della scurrilità sublime.

Ma poi? Persino Carducci aveva capito, a modo suo, che l’endecasillabo andava sempre bene, ma non si poteva rifare i Sepolcri. E a modo suo si sforzò di trovare antidoti a una musicalità troppo corriva. Come si sa, era più professore che poeta, e sempre tentato dall’enfasi. L’enfasi, cercò di incanalarla in ritmi più ardui e rifece il verso ai suoi pagani. In genere combinò pasticci pretenziosi, lavorando a tavolino con tutte le risorse metriche e prosodiche che – bisogna pur dire – sapeva maneggiare da bravo artiere. E quello che voleva essere fu. Riuscì meglio le poche volte che si lasciò andare senza troppe pretese a una sua vena un po’ populista, da loggione verdiano. E allora tirò fuori le cadenze simpatiche della nonna Lucia, sul filo di una vena nostalgica, come succede anche talvolta all’uscita dell’osteria, senza dimenticare nemmeno quel pizzico di bonomia nostrale che gli veniva dal suo fondaccio di diavolone toscano. Tanto per inverare il detto che

can che abbaia non morde. E in questi casi lo soccorse sempre un endecasillabo morbido e liscio, e magari un po’ da banda, da fanfara paesana.

Il suo alunno Pascoli, che in niente proprio gli assomigliava, lavorò l’endecasillabo da nevrotico raffinato, spezzandolo nelle pause, singhiozzandolo nelle cesure e negli enjambements, tentando anche di abbassarne i toni con l’immissione di lessici inediti. Di solito ci riuscì. Qualche volta il patetico gli sfuggì di mano e l’endecasillabo-usignolo mise qualche trillo di troppo.

D’Annunzio, uomo dalle pose sgradevoli quanto si vuole, ma artista – non c’è alcun dubbio – di finissimo orecchio, coltivò l’endecasillabo come un pescatore di perle e un orefice fanatico. E il suo verso assunse le iridescenze preziose, le levigatezze dell’opale e dell’ametista, le sonorità più sinuose e cangianti. Il buono, come sempre in lui, si confuse col falso, il kitsch col sublime: sicché, con la sua poesia, fai sempre la figura del provinciale che dice come son belli questi fiori, sembrano veri, e lo dice, per non sembrare sprovveduto, anche quando i fiori son veri sul serio, ma tanto veri che, appunto, sembrano finti.

E poi? Poi un’altra bella lezione la dette Gozzano.

Gozzano partì da D’Annunzio, di cui era stato all’inizio così infatuato da rischiare di morire – lo dice lui – “gabrieldannunziano”. Per fortuna capì in tempo, lui pure, la cosa fondamentale sull’endecasillabo. Che l’usignolo ti scappa di mano se non lo ingabbi nella voliera, se non gli fai piegare quella testa di cigno a suon di ironia, in modo che si comprometta almeno un poco coi brutti anatroccoli, con gli spruzzi di fango del parlato. Così Gozzano nei suoi endecasillabi infilò qualche termine strambo o straniero o del lessico basso tra i velluti delle sonorità cremisi, contaminò i santini del misticismo con le ragnatele delle soffitte, ed esasperando la cantabilità fece scaturire – come aveva già fatto Parini – l’ambiguità del falsetto e quell’eccesso di femminilità che diventa inquietante nei viados e negli ermafroditi.

Ancora oggi l’endecasillabo piace, anche se non ce lo confessiamo, perché abbiamo orrore di esser presi per quelli che al cinema piangono al buio, davanti alla scena della mamma che ritrova il bambino perduto, creduto già morto. O che diamine, commuovermi io per queste sdolcinate scemenze?

Ancora oggi quando sentite un verso che suona come un verso, se fate caso è almeno un pezzo di endecasillabo, un suo segmento, un suo derelitto figlio minore, come in Ungaretti, o magari un endecasillabo mascherato, come quegli ipermetri di tredici sillabe che spesso trovi in Montale.

E Saba? Saba, si sa, ha innovato con materiali vecchi. L’endecasillabo in lui è proprio endecasillabo, rotondo, cantabile. Magari, ecco, la spia di una certa inquietudine, del suo esser moderno, sta nelle cesure, in certi a capo che sono nuovi, in Saba, e magistrali. E, anche in lui, l’immissione, accanto all’aulico, dei toni smorzati, o qualche cadenza da melodramma. La compromissione: come di certe marcette stridule da periferia che trovi in Mahler, nel bel mezzo di un adagio struggente o tra i colori straripanti del wagnerismo.

E ancora, magari, gli altri. L’endecasillabo è ancora un’insidia. Quando viene, perché – intendiamoci – prima o poi viene, i più scantonano, girano al largo, fanno finta di niente. Se la cavano più a buon mercato quelli che son meno forniti di cultura umanistica, o si son fatti l’orecchio sugli stranieri, magari nella traduzione di Pinco Pallino. Per gli altri è una guerra: croce e delizia. Perché l’endecasillabo viene. Lo cacci dalla porta, torna dalla finestra. È pericoloso, naturalmente, ora più che mai. Perché è un usignolo in esilio. E se lo lasci entrare, se hai un lieve cedimento, lui mette il piedino dentro l’uscio, poi s’accomoda, e non te ne liberi più.

Se poi, perso per perso, credi di fare il furbo, e decidi di castigarlo, perché stia buono, nelle forme chiuse, un po’ ti castighi anche tu, ti fai dispetto da solo, ti castri come Origene, ti becchi nuove pastoie. E poi, inutile, le forme chiuse alla lunga ingenerano monotonia.

Ma allora? Se lo lasci solo, a cantare, l’endecasillabo impazza, sfodera il do di petto, si sente un tenore. Che tu lo voglia o no, ti porta all’enfasi, al grido o all’elegia. Di per sé ti porta alla pronuncia alta, magari si rimpannuccia di vesti auliche, una carnevalata, senza saperlo, da film in costume.

Che fare? O gli tiri il collo o, appunto, gli abbassi la cresta e la smania di gloria con le armi che si diceva: lo contrasti con la prosa quotidiana, lo costringi a venire a patti con la terminologia del meccanico, o, scientemente, ne esasperi le sonorità e lo riduci a caricatura di se stesso, ne fai strumento di ironia.

Altrimenti lui non ti molla, ti succhia come un vampiro, ti ubriaca di melodie immortali: finché, annebbiato, rischi di prenderlo sul serio. Sarebbe come prendere sul serio oggi la politica italiana.

 

  • Come anticipato nel numero scorso, proponiamo, grazie alla cortesia dell’Autore, un suo brano estratto dal recente volume Un mare d’inchiostro. Pagine su “Pagine e altri cabotaggi”. Ed. Cofine, Roma , 2015) In precedenza, l’articolo è stato pubblicato in ‘pagine’ n. 36, anno XIII, settembre-dicembre 2002.