L’impegno civile di Stuparich

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Intervista a Fulvio Senardi

I passi di Stuparich dall’impegno vociano fino alla “questione di Trieste”

 

 

 

È fresco di stampa questo tuo volume edito dalla EUT sull’opera saggistica politica e civile di Giani Stuparich. Serve un po’ a tirare le somme di altri lavori – penso al tuo Il giovane Stuparich, pubblicato nel 2007 dalle edizioni del Ramo d’oro, e al volume curato da Patrick Karlsen Un porto tra mille e mille, edito anch’esso dalla EUT nel 2012 – aggiungendovi ovviamente ulteriori dati e riflessioni? Oppure, in altri termini, la domanda può essere riformulata così: cosa ti ha spinto a ritornare sull’argomento?

Ti ringrazio per la domanda che può contribuire a far meglio comprendere un’insistenza su Stuparich che potrebbe apparire “maniacale”. Il mio Giovane Stuparich metteva a fuoco il percorso dello scrittore triestino dagli esordi agli anni Venti dei Colloqui con mio fratello e guardava alle riflessioni dell’“ideologo” e all’attività del saggista dal punto di vista dell’attività dello scrittore. Nel volume appena uscito, Stuparich saggista politico-civile, l’approccio è invertito: il filo rosso è quello della riflessione politico-civile e la produzione letteraria è sfiorata solo quando pertinente a far capire la visione del mondo dello scrittore che, non dimentichiamolo, è un intellettuale al quale Trieste ha guardato, soprattutto nel quindicennio 1945-1960, come al faro che rischiarava la via. In questo senso vero “nocchiere spirituale” come Stuparich ha definito Silvio Benco. Per capire l’evoluzione e gli snodi del suo pensiero, e la sua inesausta ricollocazione rispetto alle drammatiche vicende del “secolo breve”, che in terra giuliana è stato più drammatico che altrove, ho seguito i passi di Stuparich dall’impegno vociano fino alla “questione di Trieste”, indulgendo nelle citazioni di brani dei suoi contributi saggistici e giornalistici che in larga parte non sono stati più ripubblicati.

Stuparich esordisce come narratore solo dopo aver dato le sue prime prove come saggista, negli anni della Voce in cui si cementò la sua amicizia per Scipio Slataper, che tanta parte ebbe nella sua visione delle cose politiche e cui tanto lavoro dedicò in seguito, per valorizzare la biografia e l’opera dell’amico. Puoi brevemente dirci con quale bagaglio culturale arrivò a Firenze Giani e in cosa tale bagaglio era analogo (e in cosa diverso) a quello di Slataper?

Giani, a quanto si desume non tanto dalle memorie (che possono essere fuorvianti perché selettive oppure guidate da considerazioni di opportunità) quanto dal tessuto ideologico della saggistica, appare esposto, più di Slataper, ai benefici influssi del mazzinianesimo e dell’austro-marxismo, felicemente coniugati nel sogno utopico di un’Europa delle patrie, a formare una “santa alleanza” continentale di liberi popoli associati. Era in fondo anche un modo per assegnare un ruolo alla minuscola comunità degli austro-italiani, il gruppo nazionale più piccolo nel mosaico dell’impero, e quindi quello più a rischio dal punto di vista identitario. Su questo sfondo ideale e ideologico Giani, giunto a Firenze, comincia a elaborare una sua visione dello spazio politico-culturale asburgico nel quale riconosce la positiva forza trainante del socialismo come forza politica e dei cechi come forza nazionale.

Il disegno dei giovani vociani triestini di un’Austria dei popoli, in contrapposizione alle opzioni irredentiste del Partito nazional liberale poteva essere l’embrione utopistico di una federazione europea, come affermerà molti anni più tardi lo stesso Stuparich, in un brano riportato da Renate Lunzer nel suo Irredenti redenti?

C’era molto di utopistico nella speranza che l’Europa asburgica potesse diventare una “svizzera” mitteleuropea e, in quanto tale, primo nucleo della mazziniana associazione dei popoli. Sogno che nasce dalla sottovalutazione delle forze conservatrici dell’Austria dinastica, militarista e clericale – ancorché stato di diritto – e dalla contestuale sopravvalutazione della forza politica del partito socialista in un impero che non era, a rigor di termini, uno stato parlamentare, perché il governo, nominato dall’imperatore, poteva ampiamente operare con lo strumento dei decreti-legge. Paradossalmente, e nonostante tutta la simpatia politica e la solidarietà morale che oggi si può sentire per i “vociani” giuliani, l’irredentistico partito liberal-nazionale (con tutte le sue contraddizioni e ipocrisie) coglieva meglio di loro la natura rigida e non suscettibile di positive trasformazioni dell’assetto politico-istituzionale dell’Impero. Altra cosa naturalmente la slavofobia, che è il grande peccato originale del partito liberal-nazionale.

L’esperienza della guerra, che per Stuparich ha il connotato della perdita prima di Slataper, poi del fratello Carlo, quindi ancora di un lungo periodo di prigionia, sempre esposta alla possibilità di essere riconosciuto e quindi impiccato, rimane uno snodo centrale nella sua biografia e nel suo pensiero, che l’autore si portò dietro sicuramente fino alla scrittura di Ritorneranno e oltre. Come ha giocato quella durissima esperienza rispetto alle sue riflessioni politiche del primo e del secondo dopoguerra?

Per approfondire questo tema è necessario entrare sul terreno spinoso e precario della psicologia (dico precario perché ad alto rischio di interpretazioni soggettive). Dai Colloqui con mio fratello, su cui Giani è lungamente e faticosamente all’opera negli anni del dopoguerra, al racconto Grotta del 1933, compreso nei Nuovi racconti del 1935 (e che ha al centro la vicenda tragicamente conclusasi di tre giovani amici) e, infine a Ritorneranno, i ricordi e le riflessioni sulla guerra si accompagnano a un sordo senso di colpa. Per dire con una frase del protagonista di Grotta – il racconto non è notissimo ma è forse quello che, con celati rimandi all’esperienza di guerra, meglio esprime il dramma intimo di Giani -: «a tutti egli avrebbe dovuto render conto d’esser rimasto vivo». D’altra parte, lo Stuparich uomo del Risorgimento, lo Stuparich mazziniano e patriota è fermamente convinto che il tremendo olocausto andava celebrato, che il prezzo terribile pagato da molte famiglie era un sacrificio giusto e legittimo, come quello di Oberdan , la figura mito di questi giuliani. Tuttavia tale certezza di ordine razionale e politico non basta a lenire il dolore incistato nel profondo, e va a costituire uno strato della personalità, in costante dialettica con l’altro, dove duole una cicatrice mai pienamente rimarginata. L’aporia si risolve solo nell’arte, perché solo l’arte – in questo caso la letteratura – può parlare gli opposti senza cadere in contraddizione. Può raccontare di una famiglia distrutta dalla guerra, facendo proprio e trasmettendo al lettore l’immensa sofferenza che ne deriva, e insieme veicolare una canto di vittoria per la città congiunta alla patria. E siamo a Ritorneranno. In un certo senso tutta l’attività di narratore e di saggista politico di Stuparich (dove in fondo l’impegno è sempre lo stesso: difendere e riaffermare l’italianità di Trieste) non è che un andirivieni fra questi due poli, il dolore della perdita (sul piano affettivo) e la gioia dell’acquisto (sul piano politico-civile).

L’attività saggistica di Stuparich si concentra in tre nuclei temporali: il periodo 1910-1915, quello propedeutico al primo conflitto mondiale, poi quello immediatamente successivo e infine, dopo un lungo intervallo di silenzio, il quindicennio che seguì il secondo conflitto mondiale. A tuo giudizio esiste una continuità tra queste tre fasi?

Una continuità di pensiero innanzitutto, con un’impronta socialista che a poco a poco stinge – lo si legge benissimo nelle pagine del primo dopoguerra nel rammarico di Stuparich per la svolta massimalista e bolscevica di un partito che ai suoi occhi ha rappresentato, nella forma austro-marxista, una forza di progresso e civiltà – e un consistente filo rosso mazziniano che diventa, ideologicamente, l’ispirazione prevalente del saggista. L’ambizione della prima fase, i saggi vociani, è soprattutto di natura conoscitiva, mentre nella saggistica del primo e del secondo dopoguerra non manca uno scopo pratico, sebbene pre-politico e a-partitico, quello di contribuire a suscitare un movimento di opinione il cui contenuto concreto è di pacificazione, nel primo dopoguerra, e di difesa nazionale, in tutti i sensi del termine, nel secondo, quando l’appartenenza statuale di Trieste sembrava venir messa in dubbio.

La redazione di questo tuo libro ha richiesto anche lunghe ricerche d’archivio. In esito a tale tua attività, sono emersi fatti o documenti nuovi, che concorrano a rifinire la biografia di Stuparich o a porre in luce diversa la sua attività di intellettuale?

Nel libro entra una certa mole di inediti e di documenti di archivio ancora sconosciuti. Grazie al fondo Stuparich della Biblioteca civica di Trieste che rimpolpa il lascito stupariciano presso l’Univeristà di Trieste si può mettere meglio a fuoco ciò che di Stuparich appena sospettavamo: per esempio l’ardente passione filosofica, una caratteristica dei giovani vociani, e che non dà luogo, nel pubblicato, a pagine importanti. Per non dire del ritrovamento del Taccuino di guerra, da cui nasce con uno sforzo straordinario di disciplina letteraria Guerra del ’15 e sul quale è al lavoro una giovane studiosa genovese. Poi, come spesso succede, rovistando negli archivi ci si può imbattere in scoperte inaspettate, come il documento dei Lincei che attesta l’iscrizione di Giani al PNF. E qui naturalmente bisognerebbe aprire un discorso così lungo da impegnare tutte le pagine di questo numero del Ponte rosso.

Giani Stuparich è stato uno scrittore che, a mio giudizio (che so essere anche il tuo) risulta sottovalutato dalla critica e sicuramente dall’industria editoriale nazionale. Sapresti individuare qualche elemento che spieghi questa negligenza, sia pure relativa?

Ti rispondo telegraficamente: ormai, in Italia più che altrove, la cultura è al traino del mercato e della demagogia politica, e quindi sovente cessa di essere tale. Si celebra l’evento, il sensazionale o la trouvaille vuota di contenuto ma che lascia a bocca aperta: tutto ciò che parla alla pancia e può far pubblico e quindi voti in un Paese di semi-colti (meno laureati da noi che in qualsiasi altro paese civile). I fuochi d’artificio nelle feste dei Re dell’Ancien Regime. Manca una responsabilità nazionale per la cultura del Paese, manca la sensibilità per ciò che merita di restare – i classici, diceva Calvino – distinguendoli dall’effimero, e manca, soprattutto a livello locale (da dove prenderemo i futuri senatori), una classe politica di cultura perché ormai ragliano gli asini nelle posizioni apicali dei comparti delle amministrazioni pubbliche che hanno il compito della promozione culturale. Così, ti faccio un esempio triestino, si spendono dei soldi per uno studio di fattibilità per trasferire la Biblioteca Civica nella ex-Pescheria e il triestino che vuole consultare La Voce deve ricorrere all’anastatica presso la Statale di Gorizia (edizione che si potrebbe acquistare e a prezzi non astronomici), essendo state smarrite intere annate (il 1914 per es.) della rivista originale in uno degli innumerevoli magazzini di periferia del capoluogo di regione dove sono stati accatastati volumi e riviste dopo l’allagamento del palazzo di Piazza Hortis.